Guardare Avatar in 2-D è come avere l’influenza da piccoli

Guardare Avatar in 2-D è come avere l’influenza da piccoli

Il 23 settembre Avatar è uscito nuovamente al cinema. Un piccolo grande ripasso, tredici anni dopo, in attesa che il 14 dicembra esca il sequel, La via dell’acqua. E’ uscito di nuovo e siamo tutti contenti, perché, se visto nell’unico modo in cui bisogna vederlo, è uno dei film fondamentali del Terzo Millennio, se solo tutte le altre produzioni ne avessero compreso la lezione. E invece, a distanza di tredici anni, pare proprio di no, che non l’abbiano capita. Lo si deduce anche dalle modalità con cui questa ri-uscita del film è stata predisposta dalle sale, molte delle quali non lo propongono come dovrebbe essere proiettato: in 3-D. Avatar esiste solo in quanto prodotto tridimensionale, in caso contrario è solo una copia piratata (male) di cui si scorgono personaggi che compiono azioni sfocate calati in ambienti non completamente definiti.

Vediamo perché. Ne ho già parlato su una nobile rivista decaduta quando il film uscì ma credo che nessuno se ne sia accorto e poi, qualche anno dopo, su un volume che è stato il mio libro meno venduto, per cui credo di poter riaffrontare l’argomento senza che qualcuno lamenti di averlo già sentito.

Nel primo decennio del 2000, per ritrovare lo splendore di uno spettacolo troppo spesso minacciato dalla pirateria, è tornata per la terza volta la moda del 3-D (sarebbe stata la quarta, ma la prima, negli anni Venti del Novecento, è passata senza lasciare traccia). Si è assistito a una proliferazione di titoli, alcuni realizzati anche da grandi registi ma l’unico ad aver compreso come si dovesse proprorre un prodotto la cui tridimensionalità fosse una seria ricerca di un modo differente di concepire immagini e narrazione e non un mero tentativo di accrescere la spettacolarità, è stato proprio Cameron. Di fatto, pur in presenza di alcuni ottimi lavori come Polar Express di Zemeckis o Hugo Cabret di Scorsese (e basta, in pratica), la nuova ondata di pellicole in 3-D non ha compiuto nessun passo in avanti rispetto agli anni Cinquanta, visto che tutti i prodotti usciti contemporaneamente e poi in seguito ad Avatar sono sempre apparsi attenti alla plasticità esteriore e non alle possibilità di immersione. E ora, che questa terza ondata si è di fatto esaurita, possiamo dirlo con assoluta certezza. Certo, rispetto al passato la stereoscopia (il nome figo del 3-D) del 2000 s’inserisce in schemi spettacolari differenti, che presentano un montaggio ipertrofico ed effetti digitali che conducono il pubblico a vivere uno stupore partecipe e continuamente sollecitato, ma che, alla fine, rimane sempre alla superficie dell’evento e non conduce mai a un’esperienza totalizzante, a meno che lo spettatore non abbia sette anni e creda ancora che la sua stanzetta abbia una porta segreta verso il mondo dei folletti. L’unico sforzo teorico di andare oltre la pura spettacolarità per creare (letteralmente) un universo a sé stante, ricco e articolato, totalmente alternativo rispetto alla prospettiva bidimensionale, è stato, come detto, Avatar. Perfettamente consapevole di questo, Cameron ha impostato fin da subito il suo lavoro come metafora dell’attività dello spettatore. Di un nuovo spettatore.

James Stewart ne La finestra sul cortile e Jake Sully (Sam Worthington) in Avatar

Se Hitchcock, in quella stupenda allegoria della visione cinematografica che è La finestra sul cortile, aveva bloccato James Stewart con la sua gamba ingessata di fronte all’osservazione del vicinato, alludendo apertamente alla posizione dello spettatore immobile in sala, Cameron va oltre. Il protagonista, Jake Sully, non ha più l’uso delle gambe per una ferita di guerra ed è un soldato, non un fotoreporter. E quindi?, direte voi. Eh, in questo sta la dfferenza. James Stewart è un fotografo, ha uno sguardo allenato alla ricerca del particolare fondamentale, il suo occhio è in grado di scovare il nucleo della visione. James Stewart incarna lo sguardo di uno spettatore abituato a più di cinquant’anni di cinema, che sa cosa cercare nell’immagine e che trova ciò che i suoi occhi scrutano. Jake Sully no, è uno spettatore di altro tipo. E’ l’osservatore vergine, il bimbo che introdotto nella realtà virtuale non ascolta le raccomandazioni dei medici e fugge libero e selvaggio sul pianeta sconosciuto (Pandora, ma è la realtà virtuale) con il suo nuovo corpo dotato di quelle gambe che non ha più e che risultano ancora barcollanti, instabili, come è normale quando si è nei panni del neofita. Jake Sully ha un rapporto diretto con l’osservatore esperto (sostituisce il fratello scienziato inserito nel programma), è parente strettissimo dello spettatore istruito da oltre cento anni di lettura delle immagini cinematografiche, ma non possiede ancora le competenze per vivere pienamente la realtà virtuale proposta dalla tridimensionalità. Per questo inizialmente barcolla. Jake Sully, nelle intenzioni di Cameron, rappresenta una mutazione dello spettatore: non più fermo temporaneamente sulla seggiola come James Stewart (il gesso dopo un mese si toglie, come mi sono ripetuto tutte le quattro volte in cui lo ho avuto), ma privo degli arti, perché ormai assuefatto, sprofondato su quella stessa seggiola, ipnotizzato da un secolo di cinema e incapace di assumerne (re)attivamente le immagini. Introdotto in una nuova realtà che non è più solo visiva, Jake Sully è lo spettatore che si entusiasma per il livello differente di visione all’interno del quale è stato introdotto. Lo spettatore di Cameron non entra più nel film attraverso lo sguardo soggettivo à la James Stewart, come nel cinema è sempre accaduto, ma s’impossessa di un intero corpo, quello di Jake Sully, per accedere a dinamiche di attivamento ulteriori, volumetriche per l’ampiezza della scenografia, profonde per la tecnica utilizzata e ancora misconosciute perché pronte a dispiegarsi in diretta davanti a lui.

Chi vede, in Avatar, non si limita più a percepire con gli occhi, la sua identificazione non è più basata sulle due fasi di esplorazione dello sguardo e conseguente registrazione ottica, ma realizza pienamente un’autentica incarnazione attraverso un corpo, così come nella natura stessa dell’avatar, quando ancora non si parlava di Metaverso. Il pubblico s’incarna in Jake Sully così come utilizzava lo sguardo di James Stewart filtrato dall’obiettivo della sua macchina fotografica in funzione dei nuovi (che ora, tredici anni dopo, non sono più nuovissimi) confini percettivi: la profondità di campo dello sguardo di James Stewart è stata sostituita dalla visione prospettica in ampiezza tridimensionale che gerarchizza corpi, volumi, forme e contesti. Sia la profondità di campo, sia la tecnica digitale del 3-D sono un’illusione che ha bisogno della complicità dello spettatore per realizzarsi, ma il percorso percettivo stimolato da Cameron coinvolge il pubblico andando oltre la funzione della vista, aprendo invece brecce e spalancando un mondo nascosto indipendentemente dalla volontà dello spettatore, implicato suo malgrado in un gioco che prima lo cattura e poi lo pungola e lo percuote.

E il vettore di questo stimolo è il corpo. Il corpo dello spettatore incarnato e sollecitato. In una delle sue riflessioni davanti allo schermo/diario/registratore, Jake Sully osserva, quasi di passaggio, «devo sentire il mio corpo per sapere che fare»: la procedura, la condotta, la stessa visione dell’universo di Pandora passano attraverso la percezione del corpo come entità che riceve, accoglie e reagisce all’impulso, seppur minimo, fornito dalle immagini, anche se confuso con il richiamo spettacolare. I candelotti di gas lanciati dalle truppe del colonnello Quaritch, ancor prima di una minaccia per il popolo dei Na’vi, rappresentano una sorta di conferma comunicativa di tale assunto: lo schizzare degli oggetti oltre lo schermo, proiettati sull’incolumità del pubblico assorto, orienta l’attenzione verso lo spettatore, coinvolto singolarmente come corpo (che tende istintivamente a spostarsi) e come obiettivo di pratica sociale (tutta la fila dei corpi posizionati uno vicino all’altro tende istintivamente a spostarsi). Ed è per questo motivo che Avatar non dev’essere visto per nessuna ragione in 2-D, perché altrimenti non permette l’ingresso in un universo nuovo, tutto da scoprire, da vivere in prima persona con tutto se stessi. Vederlo in 2-D è come guardare un remake non dichiarato di Balla coi lupi o de L’ultimo samurai, se pensate un attimo all’intreccio. Il 3-D di Avatar rivolge invece continuamente allo spettatore imperativi mascherati da azioni spettacolari: «Spostati! Fa’ attenzione! Muovi il corpo in funzione di ciò che attraverso l’occhio ti viene ordinato». È in questo modo che il corpo dello spettatore diventa un involucro reattivo, tempio di una sensibilità ulteriore che fa convergere su di sé tutti i sensi, compresi quelli che fanno apprezzare i flebili fruscii della foresta, le sensibili tracce sonore che nella versione italiana sono state incoscientemente rimosse e che ora, nella nuova distribuzione, paiono essere state reintegrate per poi essere ugualmente vanificate dalla proiezione in due dimensioni.

Avatar è stato e continuerebbe ad essere, se visto nella maniera giusta, un rituale di progressiva elezione del corpo nel tessuto del film: lo spettatore si personifica nella realtà parallela di Avatar perché sperimenta completamente su di sé la pratica dell’azione, che vivifica e rende protagonista il corpo, sfruttando gli occhi solo come strumento di filtro e registrazione.

Avatar si apre e si chiude, tutt’altro che a caso, con l’apertura degli occhi di Jake Sully, ma la pupilla che si spalanca nell’ultima inquadratura del film, quando il suo corpo reale si trasforma definitivamente nel suo corrispettivo virtuale, è l’apertura di un nuova frontiera che nessun altro ha poi attraversato, lasciando che il 3-D e la percezione corporea esaurissero la terza fase e si consegnassero alla piattezza di ciò che ne è seguito. Per cui, siete avvisati. Perché vederlo, anche attentamente, senza percepirlo completamente su di sé è come quando da piccoli rimanevamo in casa con l’influenza e ci limitavamo a guardare mestamente dalla finestra gli amici giocare in strada pur volendo correre insieme a loro.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

2 Risposte a “Guardare Avatar in 2-D è come avere l’influenza da piccoli”

  1. Bello, bello. Un punto di vista così strutturato da impedirmi di eluderlo. Ce l’hai fatta: Avatar rimesso in lista per una re-visione più consapevole (in 3D e al cinema). Thanks!

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