Gli highlights del 40° Torino Film Festival raccontati come se Virginia Woolf si fosse calata un acido

Gli highlights del 40° Torino Film Festival raccontati come se Virginia Woolf si fosse calata un acido

È durato poco, in realtà, ma è finito l’ennesimo Torino Film Festival. Il 40°. È durato poco perché pochi erano i film che meritassero veramente la visione, per cui ne parleremo adesso a caldo come se fossimo appena usciti dalla sala e come se lo stessimo commentando insieme ai nostri amici con cui è sempre bene non andare al cinema perché durante la proiezione parlano o si addormentano, e russando disturbano tutta la sala (è capitato a me l’altro ieri sera sentire un tizio a un certo punto russare alle mie spalle durante la proiezione del film Empire of light di Sam Mendes, russava veramente tantissimo; non che il film lo giustificasse, però lui russava, si vede che aveva visto qualcosa come 7-8 film uno di seguito all’altro e alla fine il corpo si è accasciato per poter finalmente riposare dopo una giornata faticosissima, come sempre succede nei festival, che in realtà sono maratone). Tra l’altro per questo post sperimenteremo una modalità nuova di attuazione perché siccome sarà un post che simula i discorsi a caldo appena usciti dalla sala non utilizzerò la tastiera ma il dettatore del computer, in modo tale che sia una cosa talmente spontanea da risultare quasi sgrammaticata e propria del parlato. Praticamente uguale a tutti i post precedenti, anche se ci arrivo da un’altra parte. Vediamo cosa viene fuori (oggi si fa avanguardia. Burroughs il suo cut up ci fanno una ***** oggi – fantastico, il software censura anche *****: incredibile ho un moral computer. Che forse mal si sposa con quello a cui ha abituato il blog). E immaginatela con la mia voce, se la conoscete, se no metteteci la voce di chi volete voi.

Non so ancora, al momento, chi avrà vinto il concorso lungometraggi, ad ogni modo due dei film più interessanti, non so se vinceranno, ma uno di questi è Falcon Lake, un film canadese di una giovane regista che si chiama Charlotte Le Bon, nessuna parentela con Simon Le Bon dei Duran Duran ed è veramente un gran bel film pur nella sua semplicità. È un film molto diretto, un film fresco, un film di cui qualcuno appena uscito lamentava il fatto di essere poco ritmato ma non è una regola generale quella che il film debba essere per forza ritmato, la narrazione cinematografica ha attraversato diverse fasi durante la sua storia, il regime della narrazione forte è stato superato da tempo, diciamo da 60 anni?, per cui si può fare anche volentieri a meno di una storia fortemente ritmata. La forza di questo film sta nella capacità di osservare i silenzi e le reazioni di un ragazzino che si trova con tutta la sua famiglia a trascorrere un periodo di vacanza in un lago, il Falcon Lake del titolo. Questo ragazzino, che vive ancora nella sua sfera infantile, si ritrova a contatto con l’esuberanza adolescenziale di una quasi coetanea che ha qualche anno in più e che lo fa completamente innamorare, per via di atteggiamenti molto ambigui nei suoi confronti. Eh, i giovani critici chiamano questo tipo di narrazione coming of age, cioè un classico percorso di educazione sentimentale molto sofferto che ha un epilogo a metà tra il tragico e il sognante (con tanti saluti allo spoiler, ma tanto poi vi dimenticate di quello che leggete), dipende dalla prospettiva che si vuole assumere, anche se il film ne fornisce una molto chiara. Ed è un film che pur avendo un ritmo piuttosto lento, ma deve necessariamente averlo, ad onta di tutti quelli che invece l’hanno criticato all’uscita dal cinema, ha tutte le inquadrature al punto giusto, tutti i piani scelti con grande sapienza dalla regista Charlotte Le Bon e, soprattutto, ha un montaggio che non ha una coda superflua. È un film veramente riuscito, un film di grande tenerezza, un film che vale la pena vedere se soltanto qualcuno si degnasse di distribuirlo in Italia.

Sempre in concorso, War pony di Gina Gammell e Riley Keough, già Caméra d’or a Cannes per la miglior opera prima. Riley Keough, oltre a essere l’attrice protagonista di American Honey di Andrea Arnold e non solo eh, perché ha anche interpretato due gioiellini, veramente due gran bei film totalmente sottovalutati come La strada del male di Antonio Campos e soprattutto Under the Silver Lake di David Robert Mitchell, dagli echi altmaniani, nemmeno uscito in Italia ma che è veramente un grandissimo immenso thriller fatto di atmosfere sospese e impalpabili destinate a girare beffardamente su sé stesse. Riley Keough è la figlia di Lisa Marie Presley, quindi è la nipote di Elvis the Pelvis. E tra le altre cose comunque, ehm, questo film racconta le vicende parallele di due giovani che appartengono alla tribù dei Sioux Lakota e vivono relegati in una riserva indiana. Racconta la sua storia con uno stile di regia preso direttamente dal documentario, che utilizza un realismo venato da amara ironia, ed è un film che nonostante la cifra stilistica si lascia andare a slanci lirici, perché guarda alla marginalità con un occhio particolare, consapevole delle contraddizioni che mette in mostra ma occhieggiando spudoratamente alla simpatia dei protagonisti. È una pellicola che nella sua immediatezza riesce a esprimere eh la difficoltà delle giovani generazioni Sioux a vivere una vita normale che punti a un’integrazione pur mantenendo l’eredità orgogliosa della propria identità storica, integrazione spesso preclusa perché l’elemento bianco, seppur di numero esiguo, detiene sempre il potere, anche quando si mostra apparentemente democratico. È un film dalla grande potenza di impatto e una elevata capacità di evocazione di un passato mitologico ormai eclissatosi, grazie a vasti e incantevoli paesaggi che spesso fanno da corollario a tutta la vicenda per contestualizzarla nel modo adeguato e ha una fotografia che questi stessi paesaggi li restituisce con grandissimo gusto estetico. Una storia avvincente di sconfitti dichiarati, visti in un’ottica di solidarietà quotidiana che li fa sembrare, per una volta, dei vincitori a dispetto della Storia.

Particolarmente interessante poi qualche film del Fuori concorso, come al solito, come in quasi tutti i Festival, ehm, soprattutto a Torino. Iniziamo con The Stranger di un relativamente giovane regista australiano che si chiama Thomas Wright, lavoro uscito su Netflix in tutto il mondo tranne che in Italia e in qualche altro paese sfigato, tipo Belgio e Lussemburgo (forse perché vi spartite l’abbonamento, maledetti!). The Stranger prende l’ispirazione da un caso di cruda cronaca reale realmente avvenuto in Australia, ehm, il rapimento di un bambino e la sua susseguente uccisione e rivede con grande abilità i meccanismi del thriller, perché racconta la vicenda di un assassino che viene avvicinato da una squadra di polizia che agisce sotto copertura per affidargli alcuni incarichi sporchi. Il problema è che tra il poliziotto che gli è più vicino e l’assassino stesso, interpretati da Joel Edgerton e Sean Harris, nasce un’amicizia, quindi le situazioni si sovrappongono e alla fine questo thriller funziona proprio perché più dell’indagine, visto che data la notorietà del caso soprattutto gli australiani sanno come va a finire, ehm, più dell’indagine, la cosa più interessante è proprio la finezza con cui il rapporto tra i due viene ritratto, condensato tutto negli interstizi delle loro vicendevoli azioni, nelle pieghe dei dialoghi, tra le ambiguità esistenti nel rapporto tra i due, nella differenza esistente tra quello che noi spettatori crediamo e quello che la narrazione invece ci fornisce come informazioni, tra sguardi che non riescono mai a essere completamente definiti ed espressioni che spesso, molto spesso, restano non del tutto comprensibili. Tutto il valore del film risiede in questi ehm in questi margini che appaiono nascosti e che invece si rivelano nella pienezza del loro significato soltanto al termine, quando le situazioni si definiscono una volta per tutte. Un bel thriller la cui accurata definizione dei personaggi a volte si mangia la tensione degli avvenimenti, che giunge a un finale prevedibile, ma che fino all’ultima inquadratura si teme non possa davvero realizzarsi.

Molto interessante poi l’esperimento del decano del cinema polacco Jerzy Skolimowski con il film Eo, praticamente la storia di un asino e del suo raglio, visto il titolo, che rilegge ciò che Robert Bresson fece con Au hasard Balthazar, ossia la storia di quest’asino che vive varie situazioni, è libero di girare e rigirare per le strade incontrando persone, vedendo le reazioni di queste persone alla sua presenza, di come si sviluppi la vicenda di un protagonista passivo e spesso sorprendente. Ehm, c’è un grande lavoro sulle immagini perché Skolimowski utilizza il digitale e lo utilizza in un modo particolare, rendendolo quasi scintillante e operando un contrasto evidente con la vicenda agreste e poetica che si traveste da apologo classico. È un film arrivato a Torino già premiato, perché è stato nominato nella classifica dei 10 migliori film dell’anno dei «Cahiers du cinema» e ha ottenuto il Gran Premio della giuria all’ultimo Festival di Cannes.

Poi due parole su Venus di Jaume Balagueró, ma soltanto perché l’attesa era molto elevata vista la fama di grande costruttore della tensione che ha il regista. Un lavoro che parte bene, ambientato in un caseggiato stregato in cui due sorelle e la figlia di una e nipote dell’altra si trovano a essere praticamente imprigionate perché un antico sortilegio regna sull’orrido palazzone. Ma mentre pensi che una delle due protagoniste sia proprio azzeccata e anche se non lo fosse va benissimo lo stesso, perlomeno per la canottiera che indossa, e ti illudi che le credenziali di Balagueró si siano confermate un’altra volta dopo il capolavoro Mientras duermes, il film improvvisamente sbraca. Manca ancora poco più di mezz’ora ma potrebbe essere le mezz’ora più lunga della vostra vita, trascorsa vedendo un film che si avvita su se stesso, diventando un horror dozzinale, un horror come ce ne sono mille altri e per di più di pessima fattura, con urla, sangue che schizza e situazioni ridicole che si rincorrono sfidando il buon gusto. Talmente ridicole che se avessi pagato il biglietto mi sarei amaramente pentito di averlo fatto. Forse la più grande delusione del Festival, vista l’attesa.

Chi invece il ridicolo lo sa maneggiare con una certa disinvoltura, fregandosene di qualunque logica se non della sua e portando ciò che mette in scena sempre un gradino oltre il senso del limite è Quentin Dupieux, il secondo Quentin a saper fare cinema al mondo e, tra i due, quello sicuramente più fuori di testa. Fumer fait tousser, con cui idealmente ho chiuso il festival, è il film che ti riconcilia con il tempo perso, con le code, con lo ******* a fianco che puzza di sudore perché siccome sta tutto il giorno al cinema non ha tempo di lavarsi, con i film di ***** (sia maledetto ‘sto dettatore che non mi fa neanche sfogare. Mai più, ve lo prometto), film del ***** visti quando sarebbe meglio andare a dormire, con il cibo ingurgitato perché devi correre nell’altra sala e la vescica che sfida la prostata a chi si mantiene più giovane. Surreale e stralunato, Dupieux riuscirebbe a farti ridere di qualunque cosa, dandoti un colpo nelle palle mentre ti guarda fisso e ti assicura che non è stato lui, creando una serie infinita di cortocircuiti tra il tragico e il grottesco che nessun altro riesce a gestire con la stessa spontaneità. È un film che si basa su un falso movimento (narrativo), perché la trama principale non racconta nulla, è praticamente immobile (un gruppo di scalcagnati supereroi chiamato Tabac Force va in ritiro a riflettere e allenarsi in previsione di una lotta senza quartiere con un temuto criminale che intende distruggere il mondo), mentre l’azione si anima su irresistibili racconti di paura riferiti dai personaggi nei momenti conviviali. Un film a episodi non dichiarato, una Mille e una notte cialtrona che frantuma la modernità per risputarla fuori masticata e digerita con un sonoro boato, il regno dove l’assurdo viene totalmente normalizzato e reso lecito. Un mantra infinito pensato per essere proiettato oltre lo schermo nella ripetizione ossessiva di «changement d’époque en cours» da parte di un robottino difettoso che vi entrerà in testa e vi mollerà a fatica. Una serie di risate che entrano di diritto nella galleria antologica del regista, una ventata di aria fresca che mi fa pentire di averla anche solo pensata come tale nel momento in cui sono uscito dalla sala con il mantra ossessivo in testa e mi sono beccato in faccia i due gradi che mi aspettavano all’esterno.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.