Giro di vite (perpetuo): Oppenheimer

Giro di vite (perpetuo): Oppenheimer

[Spoiler: il film in Italia esce fra quasi un mese, il 23 agosto; quindi, a qualcuno verrà in mente di non leggere il post per non rovinarsi il gusto della visione. Ma Oppenheimer è uno dei padri della bomba atomica, la bomba atomica è esplosa a Hiroshima e Nagasaki all’inizio di agosto del ’45 e nel corso degli anni ha fatto circa 200.000 morti. Dovreste già saperlo, anche se non avete letto la recente ultima fatica di Stefano Massini, Manhattan Project. Il film non giunge a conclusioni diverse. Oppenheimer non è Batman]

L’impressione è di una vite che gira lentamente, progressivamente, senza mai fermarsi. Un crescendo cadenzato di tensione sempre in procinto di esplodere (scusate: troppo facile, questa), senza che lo faccia davvero. Perché l’Evento, quell’evento, resta fuoricampo, escluso dalla narrazione. È talmente scontato che si rispecchia nel test generale, che altro non è che la dimostrazione di un Prometeo diventato nemesi per tutti gli uomini, non più creati dal fango ma distrutti proprio da quel fuoco che aveva infuso in loro la vita.

Oppenheimer ruota intorno alla materia e agli elementi. È un trattato di fisica quantistica che ha avuto le sue manovre di avvicinamento (Interstellar su tutti) e si è concretizzato in immagini che attraversano il tempo e i tempi. Come di consueto nel cinema di Nolan. Ma in questo caso in un modo diverso. Ricordate ciò che ci dicemmo qua sul blog in un post di tre anni fa, scritto all’uscita di Tenet, il film che sancì il ritorno in sala dopo il periodo folle del Lockdown? Che Tenet era il punto di approdo della ricerca di Nolan sul tempo, un punto d’approdo forse definitivo, per impossibilità fisica di andare oltre. Tempo che in Nolan è sempre anche struttura narrativa. Tenet, come era evidente dal titolo stesso, rappresentava la palindromia, e arrivava dopo la manipolazione dell’alternanza di Dunkirk, il già citato parallelismo dimensionale di Interstellar, la stratificazione virtuale di Inception e il racconto à rebours di Memento, dove tutto ebbe inizio. Oppenheimer non può andare oltre, perché gli assi del tempo conosciuto ormai Nolan li ha sondati tutti e allora il tempo lo attraversa e lo confronta, come nella relatività einsteiniana (ricordo una barzelletta su Einstein che mio padre mi raccontò quando ero molto piccolo: un’amica della moglie di Einstein le fa notare come il marito non sia una particolare bellezza. La moglie risponde: «Sì, lo so bene. Però, che fisico!»).

Nolan divide in due la narrazione, ma non si tratta più della specularità, dell’osmosi e del riavvolgimento di Tenet, in Oppenheimer c’è il ricalco temporale della differenza esistente fra fissione e fusione nucleare. Sto sdando, dite? Guardate il film e fra un mese mi direte. La fissione è a colori, la fusione sono i segmenti in bianco e nero. Sul «New York Times», quella vecchia lenza di Manohla Dargis (vecchia come esperta, non per l’età: cinque volte finalista al Pulitzer, ‘sto cazzo) ha proposto l’immagine delle due strisce del DNA che si sviluppano elicoidalmente. Quella a colori rappresenta il mondo della scienza e della ricerca; quella in bianco e nero la manipolazione del potere. Bellissima immagine, certo. Non oserei mai dire il contrario. Ma l’elica del DNA la vedo poco calzante, pur rimandando a uno sviluppo coerente e sicuramente suggestivo. No, io, che se bevo un paio di birre in più Pulitzer non so neanche come si scriva e che il premio più prestigioso l’ho vinto quando giocavo a calcio, mi permetto di pensare più alla differenza tra le due reazioni nucleari, che ha il pregio di essere attinente a ciò che si sta raccontando (non è poco) e che è suggerita dallo stesso film in una suddivisione preliminare, nelle prime inquadrature. Lo spazio a colori della fissione, che è la reazione che permise il funzionamento della bomba, occorre ricordarlo, è lo spazio personale e soggettivo di Robert Oppenheimer, interpretato da un intensissimo Cillian Murphy, spesso estratto dall’insieme del quadro con l’obiettivo Imax e nello splendore del supporto digitale da 65 mm, sul quale anche i punti neri diventano luoghi da guida turistica. Nello spazio della fissione, a colori, Oppenheimer si divide in due nuclei più leggeri (la sua duplice vita privata e quella professionale) e contemporaneamente emette un certo numero di neutroni (ossia lo sviluppo della ricerca che coordina). Nell’ambito della fusione, la parte in bianco e nero, due nuclei (Oppenheimer e il suo grande accusatore, Lewis Strauss, interpretato magnificamente da Robert Downey jr, costretto a trovarsi un nuovo impiego dopo la morte di Iron Man) si uniscono (a processo) per formarne uno più pesante (che porti alla condanna del fisico sospettato di simpatie comuniste). È una teoria, e come tutte le teorie apre un dibattito. Siamo in tema, d’altronde.

Tra fissione e fusione, che hanno in sé tempi diversi, il tempo del film si fa relativo, senza alcuna soluzione di continuità. Un tempo fluido, senza regole, che si muove dovunque, privo della pretesa di creare un presente narrativo e di offrire magari l’aggancio dei flashback. Il tempo di Oppenheimer è dappertutto, in ogni dove, perché per sua natura peculiare riguarda anche lo spazio, ed è un universo dove il prima e il dopo, il durante e le dimensioni parallele coesistono, in una costruzione che pare ordinata solo se confrontata con l’a-temporalità dei film precedenti, ma che in realtà è immateriale, insondabile, con l’unico riferimento (inevitabile) dato dalla tensione verso l’obiettivo e reso plastico da una boccia che si riempie progressivamente di biglie. È l’unica grandezza scalare, il resto è un puzzle che si compone sull’onda di un’idea, di un riferimento, di un movimento. Relativo, ma tutt’altro che casuale.

In base alla scansione di un tempo relativo, il film gira su se stesso, si diceva all’inizio. Si avvita senza arrivare al punto di chiusura, gira in un moto perpetuo. Questo avvitamento è legato intrinsecamente ai suoni. Perché Oppenheimer non può essere disgiunto dalla sua componente sonora: senza suoni, rumori, sottofondo, semplicemente non è. «Riesci a sentire la musica, Robert?», gli chiede a un certo punto Niels Bohr, quello dell’atomo di Bohr di cui ci hanno parlato a scuola, durante le lezioni di chimica o di fisica, mentre probabilmente stavamo facendo altro, anche se non ho mai pensato che Bohr potesse assomigliare così tanto a Kenneth Branagh. La senti la musica, Robert? Devi sentirla, perché Oppenheimer è un film acustico, è una partitura musicale circolare, musica delle sfere e degli elementi che entrano in conflitto. Tutto è pervaso dallo stesso senso di incombenza che già caratterizzava Dunkirk, sembra che tutto debba succedere nell’immediato, anche se non succede davvero niente. È una tensione completamente insatura, non fornita dalle situazioni, come accadeva ad esempio in Zodiac di Fincher, ma è un’illusione dettata dal montaggio e dal sound design. Soprattutto da quella scala Shepard che Nolan usa fin dai tempi di The Prestige, un tono perennemente ascendente volto a ingannare sull’incremento di un’intensità che invece è un fatto esclusivamente filmico e psicologico, non effettivo. È una trivella, perché trafora la percezione ma non arriva mai a compimento. Ciò che doveva succedere è già successo e tutti lo sanno, perché mostrarlo e rendere ancora più banale il sempre angusto contenitore del biopic? Oppenheimer procede imperterrito, non giunge a una meta; si sviluppa nel terrore di una reazione a catena, la evoca come terrore per il futuro ma s’interrompe nell’eventualità.

Probabilmente non è il miglior film di Nolan, ma ha senso pensare al miglior titolo di un autore che di volta in volta, di film in film, mostra un’evoluzione progressiva in quella, la sua filmografia, che è un’unica grandissima opera concettuale? 

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.