Fiumi di parole

Fiumi di parole

Sapete quanto apprezzi leggere i libri di cinema. Eppure lo faccio, perché ovviamente non mi posso esimere. Capita poi che, vuoi perché incuriosito dal battage pubblicitario, vuoi perché il nome dell’autore giustifica lo sforzo, vuoi per amicizia oppure per dovere o per semplice curiosità, capita, dicevo, che ne legga una cospicua manciata in pochi mesi. Appena sfornati. E allora, a quel punto, decido di farvi partecipi. Magari per consigliarvi. Oppure per dissuadervi. O finanche per mettere alla prova la vostra completa atarassia. Fate voi. 

Iniziamo dal libro più sopravvalutato degli ultimi vent’anni. Pubblicizzato e recensito nello scorso inverno come se fosse l’unico libro di cinema che valesse davvero la pena di leggere dai tempi della Seconda rivoluzione industriale, La formula perfetta di David Thomson è un saggio estenuante la cui funzionalità è pari solo alla scarsità di piacere che se ne ricava. Vorrebbe essere una storia di Hollywood che parte dalla produzione di Chinatown per avanzare a ritroso e poi procedere fino al cinema a cavallo del Nuovo Millennio. In realtà, se si analizzasse con la giusta onestà non mediata dalla deferenza che si deve alla casa editrice, è un libro inadatto a spiegare la storia del cinema americano a chi non la conosce perché manca totalmente di metodo (cita per la prima volta il Codice Hays, piuttosto centrale nell’evoluzione estetica e narrativa del cinema americano, una volta giunto a parlare degli anni Settanta, cioè quarant’anni dopo la sua introduzione), né fornisce quel di più a chi la storia invece la conosce, perché si lancia con fierezza in giudizi spesso impossibili da condividere, che pare siano stati scritti apposta per sembrare eccentrici (Lo squalo di Spielberg come metafora della sfiducia adolescenziale nei confronti della burocrazia – diosantissimo! -, quando sarebbe stato tanto più comodo ammetterne la derivazione dai meccanismi exploitation di genere; oppure sostenere di non amare L’esorcista perché il talento di Friedkin coinvolge il pubblico nella tensione senza una – secondo lui – doverosa necessità morale. WHY?, porca troia! Ipotesi tra l’altro smentita dal documentario del 2017 Il diavolo e padre Amorth, in cui Friedkin, tornando sull’argomento, mostra che 44 anni prima non fu solo un capriccio commerciale).

La noia insostenibile deriva però da interi paragrafi in cui Thomson snocciola dati su dati di budget rientrati o non rientrati dalle produzioni dei vari film, di percentuali sugli incassi destinate agli attori, di denaro ricavato dai noleggi delle sale cinematografiche ecc. ecc. ecc. Due coglioni di cui avreste idea solo se iniziaste questa amena lettura che io vi sconsiglio caldamente, a meno che non vogliate capire come si può rendere un’avvincente storia del cinema un inno solenne alla frantumazione delle gonadi.

Ma Thomson ha tutto il diritto di scrivere ciò che scrive. Mica il mondo è riservato solo alle persone divertenti. Quella che non capisco è la scelta editoriale di Adelphi. La formula perfetta è un libro del 2004, vent’anni fa. Vent’anni che sono trascorsi talmente veloci da superare con uno schiocco di dita i cento precedenti. E infatti l’ultimo capitolo, grazie all’enormità della visione prospettica di Thomson, diventa davvero ridicolo: analizza il mercato dei Dvd che all’epoca era la grande novità, ora un pezzo di modernariato; echeggiando l’identico vaticinio del padre dei Lumière, dice testualmente che «le immagini digitali non dureranno: sono destinate letteralmente a sbiadire» (pagina 558) – bravo! –; riflette per un intero capitolo se il cinema possa considerarsi arte, giungendo al cuore del problema con almeno cento anni di ritardo e infine, fantastico!, si lancia in un elogio di Harvey Weinstein che alla luce degli eventi che Thomson non poteva conoscere, solo annusare, appare totalmente terrificante. «Alle maldicenze, spesso bizzarre, è abituato, e gli tocca sopportarle, ma gli dobbiamo un grazie di esistere.», scrive colmo di gratitudine a pagina 555. Vorrei osservare la faccia di qualche esponente del #metoo, giusto per vedere l’effetto che fa.

Ok, Thomson non è Nostradamus, è solo un critico pedante, però la domanda che mi viene è duplice e fin troppo lecita: tenuto anche conto che di titoli di cinema in catalogo Adelphi ne ha solo tre, per quale particolare urgenza ha deciso di tradurre e pubblicare un libro di vent’anni prima, invecchiato già poco dopo la sua uscita? E, secondo me ancora più grave, come hanno fatto tutti i pecoroni che l’hanno recensito un po’ dappertutto, anche sui grandi quotidiani e in tv, non solo sui blog, a esaltarlo così tanto? Ma sono arrivati fino alla fine? Immagino di no. Era estenuante anche per loro ma dato il marchio Adelphi non avevano il coraggio di ammetterlo.

Molto meglio sentir parlare di cinema uno come Tarantino. Il suo Cinema Speculation (La Nave di Teseo) è una vera ventata di freschezza. Il principio è più o meno quello di questo blog: parlare dei cazzi propri mentre si illustra una concezione di cinema. Soprattutto di quello di genere. Solo che lui è Tarantino, quindi funziona. Concezione personale formatasi in un periodo glorioso del cinema americano, quello degli anni Settanta, quando qualunque stronzata (vista con la consapevolezza degli anni successivi) sembrava un capolavoro assoluto (ad esempio, e lo dico fuori dal mio interesse, Easy Rider, che ora è sicuramente più valido come emblema di un periodo che come esemplare prodotto estetico). Tarantino racconta della sua esperienza di spettatore durante gli anni della sua adolescenza, della formazione del suo gusto, che è sempre un gusto particolare, qualche volta discutibile ma che, quando lo è, possiede una sua ammirevole logica ferrea, per linearità del giudizio espresso. Per fare un paio di esempi: Tarantino trova non riuscito il climax sul Monte Rushmore di Intrigo internazionale che invece è perfettamente coerente con la pratica geometrica della verticalità a cui punta costantemente il film (uno dei tre film della mia vita, tra l’altro); oppure giustifica il personaggio di Harry Callaghan dicendo, in pratica, che non è fascista, sono i malviventi di colore a stimolare i suoi istinti violenti (pagina 80. Che a me ha ricordato il celebre sketch di Giobbe Covatta quando diceva che non sono gli altri a essere razzisti ma loro a essere napoletani. Ciò detto, io che aborro il fascismo come secondo male del mondo ― non vi dico il primo ma chi mi conosce lo sa ― adoro Clint Eastwood in Callaghan: penso sia il suo personaggio migliore di sempre, più del William Munny degli Spietati. Anche perché William Munny è Callaghan che s’è un po’ rincoglionito).

Tarantino ribalta il punto di vista noioso e saccente di Thomson, perché guarda il cinema dal basso dell’impressionistica visione infantile, mediata sì dalla consapevolezza assunta nella maturità, ma espressa come se parlasse a degli amici stravaccato su una sedia nel déhors di un bar. Al punto tale che non si esime da commenti scomodi e irriverenti, come appunto se si trovasse in una posizione talmente scazzata da insufflare bolle d’aria al cervello: La sposa in nero di Truffaut è un film dilettantesco; un critico come David Thomson, tanto per ricollegarci a quanto detto sopra, è uno che si beve le stronzate che gli dicono i registi; l’attrice Ilah Davis di Hardcore di Paul Schrader è una cagna, mentre il critico James Bacon (qua di fianco) era un «culone sovrappeso» che parlava bene di ogni produzione in cambio dei favori ricevuti (pagina 158).

Si legge con piacere anche di film che non avremmo mai e poi mai citato tra i primi trecento responsabili della nostra crescita. Penso a Rolling Thunder di John Flynn, in cui William Devane ― che Tarantino pensa sia uno dei migliori attori del cinema 70s mentre voi invece state cercando su Google per vedere che faccia avesse ―, pur con un braccio in meno, cerca, scova e stermina i messicani che gli hanno ucciso la famiglia. Oppure a Taverna Paradiso, in cui Sylvester Stallone si dà al wrestling e firma finalmente quella regia che due anni prima, per Rocky, gli fu tolta dalla produzione per essere affidata a John Avildsen. Una visione del cinema e della vita da cui ci si sente cullati, e che conferma quello che ho sempre pensato: che Tarantino resta l’unica persona al mondo con cui parlerei volentieri di cinema davanti a un paio di birre gelate. Anche a costo di berle quasi da sdraiato.

Due segnalazioni, per concludere. Una è di un altro grande amante del cinema, soprattutto di quello classico. Il mio amico Mario Molinari, critico e redattore praticamente da sempre di «Segnocinema» (ne approfitto per un saluto affettuoso a Mario Calderale, di cui mi onoro di aver condiviso con lui gli ultimi due anni della rivista con la quale fin da studentello sognavo di collaborare), ha progettato e curato una monografia su Robert Mulligan, probabilmente l’unica esistente al mondo, firmata insieme a Fabio Zanello per i tipi di Falsopiano. Mulligan è un regista molto sottovalutato ma autore di pellicole comunque memorabili come Il buio oltre la siepe (1962), il bellissimo Su per la discesa (1967), lo spiazzante Chi è l’altro? (1972), l’inquietante western La notte dell’agguato (1968) e il nostalgico Quell’estate del’42 (1971). Il libro è una raccolta di saggi che ripercorre tutta la sua lunga carriera e ogni saggio è dedicato a un singolo film. Mario (Molinari) è l’autore della biografia iniziale del regista e di ben tre capitoli, da cui trasuda l’immortale passione del cinefilo e la consueta lucidità d’analisi del professionista. Probabilmente è un libro che non porterà alla riscoperta di Mulligan (bisogna essere realisti, dei vecchi registi in Italia non interessa più niente a nessuno), ma chissenefrega: il libro rispondeva a un’impellenza critica di Mario, convinto com’è che alcuni autori dimenticati debbano essere omaggiati con un’opera critica, per cui va bene così.

Fabio Pavesi è invece un giovane studioso e tenace collezionista, che mi ha fatto pervenire il suo secondo libro, Il conflitto in celluloide. La seconda guerra mondiale, la Cortina di ferro e il Cinema americano, edito dal Melangolo. Questo libro è l’ideale seguito, nove anni dopo, del suo primo saggio, Propaganda a Hollywood, pubblicato da Le Mani nel 2013. Nel frattempo Le Mani è fallita e anche molti di noi non si sentono poi così bene. Ma Pavesi è un profondo conoscitore della sua materia, soprattutto del periodo a cavallo della Seconda guerra mondiale, e il suo lungo studio (quasi 400 pagine) si sofferma su una miriade di pellicole, rinvenendone la precisa politica sottesa dagli Studios per veicolare il pensiero del pubblico. Non si tratta di un argomento nuovo (si vedano perlomeno gli studi di Giuliana Muscio in Italia, soprattutto per quanto riguarda la Guerra Fredda) ma è condotto con un rispettabile rigore, con la ferma volontà di mappare ogni singolo film spiegandone l’azione della sceneggiatura, il valore dei dialoghi, il reale significato di alcune azioni. La parte davvero apprezzabile del volume è il corredo di memorabilia e foto di scena raccolto nel corso degli anni dall’autore e stampato a colori nelle ricche illustrazioni interne; l’ingenuità è quella di aver dedicato uno spazio soverchiante alle produzioni Warner Bros. a scapito delle altre Majors e di essere andato talvolta off topic per eccesso di narrazione entusiastica, dilungandosi su questioni che con il problema propagandistico c’entrano davvero poco, se non come lontano, lontanissimo riflesso, all’interno di una narrazione già di per sé molto densa (ad esempio raccontare con dovizia di particolari la realizzazione de La fonte meravigliosa di King Vidor, che proprio film di propaganda non è, oppure dedicare un intero capitolo al riassestamento delle case di produzione hollywoodiane al termine della Guerra).

See you around, guys!

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

3 Risposte a “Fiumi di parole”

  1. Riminiscenze liceali mi indurrebbero a dire: “Ora bisogna bere, ma sono astemio perciò ti dico solo grazie per avermi salvato dall’acquisto del saggio La formula perfetta. Lo desideravo da tempo, ora eviterò di comprarlo persino sulle bancarelle di via Po: vade retro, noia!!!!
    Grazie inoltre per l’inaspettata sorpresa della segnalazione del primo libro da me ideato e curato, Il cinema di Robert Mulligan. Bellissime parole, schiette, perspicaci, che mi hanno procurato la stessa enorme soddisfazione che ho avvertito leggendo la recensione del medesimo testo pubblicata sul numero 749-750 di luglio/agosto di POSITIF. Non mi dilungo perché altrimenti il mio commento rischia di svamparsi per la terza volta. Aggiungo solo che, come al solito, hai partorito un pezzo interessante, originale, in un meraviglioso stile di scrittura. E come diceva don Lisander, lo stile uno non se lo può dare. E tu ce l’hai lo stile, cavolo se ce l’hai!!
    mar.mo

    1. Onoratissimo dei complimenti ma ancor di più della tua amicizia, per me molto preziosa, ribadisco i meriti del tuo volume.
      non solo perché il primo, non solo perché è piaciuto alle riviste francesi. ma anche.
      un abbraccio

  2. “Tarantino resta l’unica persona al mondo con cui parlerei volentieri di cinema davanti a un paio di birre gelate”.
    D’accordo al 100%.
    Perché la gioia genuina, pura e non intellettualoide per il cinema, l’aneddotica mista a goliardia, lo scherzo, le risate e anche le affermazioni audaci e presuntuose (di cazzate ne dice, e c’è pure chi ci crede e gli va appresso)… tutto questo miscelato assieme, beh, è ciò che cerco per farmi un paio di birre ghiacciate (e per vivere)!

    PS: ho sperato fino alla fine di aver letto male, poi ho cercato su google “Segnocinema”. È finita. Per me un’altra pesante perdita emotiva in questo anno maledetto.
    Ciao, Segno… ti ho voluto molto bene.

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