Il 3 aprile avrebbe compiuto 100 anni. Auguri. Soprattutto perché, se il divo diventa icona, alla fine non muore davvero mai. E chi può negare che Marlon Brando da Omaha, Nebraska, icona non lo sia diventato? Forse l’attore per eccellenza di Hollywood, malgrado il rapporto conflittuale. O forse proprio a causa di questo. Quello che sarebbe diventato James Dean, se fosse andato oltre i tre film. Quello che Nicolas Cage ha travisato, diventando direttamente un meme (ma noi gli vogliamo tanto bene lo stesso). Ecco, l’equivalente maschile di Marilyn. Altrettanto complesso, meno tragico per se stesso e più per chi lo ha circondato. Marlonbrando, un destino già nel nome. Di fatto un brand. Noi ne approfittiamo, anticipando di qualche mese il Torino Film Festival a nuova direzione Giulio Base, che gli dedicherà una corposa retrospettiva, e di qualche ora il Fan Club italiano dell’attore che in sovrapposizione all’associazione commercianti del Balon (lo storico mercato dell’usato della città a vocazione industriale smarrita blah blah blah) lo omaggerà con una mostra di manifesti e rare foto di scena, più la proiezione del bel documentario Listen to me Marlon, firmato da Stevan Riley.
Ne approfitteremo a nostro modo, che è sempre un po’ così ― e in quel così ci potete mettere tutto quello che vi aspettate e anche ciò che non vi aspettate: vale tutto. Lo faremo in forma di test. Scegli il Marlonbrando che preferisci e noi ti diremo chi sei. Chi sei veramente, ossia: dove neanche il vostro psicoanalista ha osato spingersi. Noi siamo gratis e saremo brutalmente onesti.
Piccola avvertenza: il tuo Marlonbrando lo devi scegliere prima di leggere. Quando leggi ti becchi il responso.
Un tram che si chiama desiderio
Brando è al suo secondo film e già ascende al mito. Interpreta il bestiale Stanley Kowalski come aveva già fatto sul palcoscenico di Broadway, irrompe nel dramma di Tennessee Williams abbandonando la recitazione teatrale propria di Hollywood e penetrando nella psicologia complessa e contraddittoria del personaggio. «Do it, don’t show it», fallo, non mostrarlo. È l’ingresso ufficiale nel cinema americano del Metodo Stanislavskij filtrato dall’Actors studio di Lee Strasberg, ma l’Academy ne ignora la performance e non lo premia con l’Oscar (lo vincerà Humphrey Bogart in versione gigione per La regina d’Africa), confermando che l’Academy, come diciamo da tempo con lessico finanche grossolano, ci vedeva lungo già allora. Brando si pompa di muscoli e s’inventa la canottiera attillata, suscitando l’ammirazione di Truman Capote e non per meriti artistici. Il #metoo la criticherà aspramente perché ritenuta il simbolo dei wife beaters, ossia i picchiatori di mogli, cosa che effettivamente, nel dramma, c’è. Brando sessualizza lo schermo e lo incendia. Anche con l’umidità stampata addosso.
Se avete scelto questo: siete raffinati (leggi: cripto gay).
Il selvaggio
Tra i film leggendari di Brando, il meno bello. Sicuramente quello invecchiato peggio, anche se la scena d’apertura ha influenzato non poco i biker movies di quindici anni dopo. Brando lo interpreta di malavoglia, ma l’icona si arricchisce anche di una cornice. La moto (una Triumph; sua, tra l’altro) come emblema di libertà, la giacca di pelle (uno Schott) come simbolo del ribellismo giovanile anni Cinquanta, di cui Brando diventa uno dei massimi esponenti: il «Nobody tells me what to do», “nessuno mi dice cosa devo fare”, diventa il motto di una generazione e di tutte le generazioni alla ricerca di leggende a cui ispirarsi. Fu fonte di ispirazione anche per Elvis e Dean; i più temerari dicono anche per Jack Kerouac e il cerchio si chiude. Per Brando è anche un utile momento di autonalisi: nonostante l’odio nutrito da sempre verso il padre, che lo aveva ispirato anche nelle scene di esplosione rabbiosa in Un tram che si chiama desiderio, il personaggio di Johnny Strabler lo fa maturare e gli fa capire che invece di ucciderlo avrebbe potuto semplicemente strappargli gli occhi, come lui stesso dichiarò. Lee Marvin, a capo della banda rivale, mal sopportava lo stile di recitazione di Brando: sul set nasce una rivalità che altro non era che il ricorso involontario al Metodo, malgrado la contrarietà di Marvin (cento anni anche lui, quest’anno, il 19 febbraio, ma per lui nessuna festa. Peccato).
Se avete scelto questo: siete nostalgici e démodé. Crescete, va’.
Fronte del porto
Si dice che Brando non lo volesse interpretare. Si dice che il produttore Sam Spiegel preferisse Frank Sinatra. Si dice anche che Elia Kazan simulò una scena con un volto emergente dell’Actor’s Studio nel ruolo di Terry Malloy per fomentare lo spirito competitivo di Brando. Ed evidentemente, al di là dei “si dice”, ci riuscì. E poco importa che l’emergente di Strasberg fosse Paul Newman: avrebbe avuto tempo di rifarsi. Brando è in crisi, è da poco morta sua madre e alle 16, caschi il mondo, va dal suo analista. E se ti basi sul Metodo, è un bene. Ma alla prima del film, Brando è depresso, pensa di aver fallito, si sente addirittura imbarazzato per la sua carriera d’attore. Vince l’Oscar, il suo primo, l’unico che ritira (e che poi smarrirà) e, conoscendo l’Academy, il dubbio che forse Brando avesse ragione ci sfiora. Ma il mito non si tocca, soprattutto durante le celebrazioni, per cui aggiungiamo che Brando, con i suoi trent’anni, fu il Miglior attore più giovane della storia di Hollywood e il primato tenne fino al 1977, quando lo vinse Richard Dreyfuss per Godbye amore mio! Tanto più che oltre all’Oscar vinse anche il BAFTA e il Golden Globe: impossibile che si fossero sbagliati tutti. Il film fu il tentativo di espiare la vigliaccata di Kazan davanti alla Commissione delle attività antimericane, quando tradì tutti i simpatizzanti del Partito comunista americano per potrer continuare la sua carriera. Lui non si riabilitò, anche perché è troppo comodo pentirsi dopo, quando i tuoi ex compagni hanno avuto la vita e la carriera distrutte, ma il film è entrato di diritto nella storia, grazie anche alla sceneggiatura di Budd Schulberg. Anzi, forse il successo è addirittura un’aggravante.
Se avete scelto questo: siete delle merde infami.
Gli ammutinati del Bounty
Gli anni Sessanta per Brando sono un decennio complicato. Difficile che capiti a una leggenda, ma in alcune occasioni si copre anche di ridicolo: basterebbe pensare alla scena intorno a un divano con Sofia Loren ne La contessa di Hong Kong (ultimo e dannoso film di Charlie Chaplin) e tutto ciò che si vede in Candy, che nelle intenzioni avrebbe vouto essere un manifesto della controcultura (e peccato, perché il romanzo di Terry Southern era simpatico). Non ci volete pensare? E allora guardate voi stessi (qua e qua). Tutto inizia da qui. Ne Gli ammutinati del Bounty l’ammutinato è lui. Non tanto nel film, quanto sul set. Fa i capricci, non va d’accordo con nessuno, visto il suo potere contrattuale decide tutto obbligando la MGM a piegarsi al suo volere. Litiga con Trevor Howard, viene dileggiato da Richard Harris, che è un gran figlio di mignotta almeno quanto lui, entra in contrasto con Carol Reed, uno dei tre registi che si succedono nelle riprese, a causa del suo atteggiamento ostruzionistico. Per dire: aveva preso gli scenografi del film e li aveva trasferiti di peso per allestire il matrimonio di un amico; in altre occasioni cambia le battute della sua recitazione dopo le prove, al momento della ripresa; è sempre in ritardo sul set perché adora farsi attendere. Reed spinge per farlo licenziare, la MGM licenzia lui. Non si è star per caso. È un inferno e tutti lo patiscono: solo Brando trova il suo paradiso a Tahiti, luogo delle riprese, e una moglie, l’attrice Tarita (con lui, qui sotto).
Dopo questo film, le produzioni lo guardano con sospetto: fantastico attore, per carità, ma quanto rompe i coglioni?
Se avete scelto questo: siete degli isterici viziati.
Il padrino
Per Hollywood ormai Brando è bruciato. La Paramount pone il veto, malgrado l’insistenza di Francis Ford Coppola. Se è per questo, la Paramount non vuole neanche Pacino, dimostrando di avere un visione davvero lungimirante. Per fortuna di Coppola e della storia del cinema, interviene Albert Ruddy, il giovane produttore, e come il Mister Wolf di Tarantino risolve problemi (vergognatevi se non avete visto la serie The Offer sulla genesi del film: è stupenda e divertentissima). Coppola e Ruddy vanno a casa di Brando e gli fanno uno screen test. Un provino, via, anche se per Brando la parola è umiliante. Brando che fa il provino, diosanto, non ci si può credere. E invece succede ed è epifania. Si eclissa un attimo, abbassa la testa e risale: ha la bocca piena di cotone idrofilo e biascica, trasformando Vito Corleone dalla vacuità della parola scritta sulla sceneggiatura a una maschera immortale. Pensateci: cosa sarebbe stato Il padrino senza Brando che, rassicurante come un’intervento di appendicite di Mengele, vi accarezza dicendo «gli faremo un’offerta che non potrà rifiutare»? A quel punto non vi resta che augurarvi di non essere un fantino o di non possedere un maneggio. È il suo secondo Oscar (ne abbiamo parlato meno di un mese fa) e il 1972 è il suo ultimo grande anno. A Coppola (e a tutti) Brando regalerà ancora l’immenso cameo del colonnello Kurtz in Apocalypse Now, l’immagine per eccellenza di una sorta di coscienza critica dell’orrore, malgrado il peso eccessivo, malgrado l’insistenza con cui intendeva farsi inquadrare, malgrado il livore che proverà subito dopo per lo stesso Coppola.
Se avete scelto questo: siete dei fallocrati patriarcali ma inesorabilmente decaduti (come segno dei tempi).
Ultimo tango a Parigi
Pur considerando Bertolucci uno dei tre migliori registi con cui avesse mai lavorato, al termine delle riprese non gli parlò più. Non gli perdonò l’insistenza con cui lo pressava per mettersi a nudo (con l’anima) e mostrarsi nella sua vulnerabilità, che voleva rimanesse celata o perlomeno confusa nell’indistinto calderone patemico del Metodo. Non gli perdonò neanche la richiesta di scene di nudo (integrale), visto che il suo pene era ormai tutto meno che leggendario, tendenzialmente più simile a una nocciolina. Non sono io a dirlo, non mi metto certo a fare il supremo giudice della consistenza penica altrui, è lui che lo fa nella sua autobiografia Le canzoni che mi insegnava mia madre, appena ripubblicata da La Nave di Teseo. Nessuno ha visto davvero il film per intero ma tutti ricordano la scena del burro. E se non l’hanno vista davvero, non importa, perché non era così necessario vederla, era sufficiente anche solo sognarla (e se la raccontate, ricordatevi almeno che Brando indossava durante l’atto un maglione a dolce vita vinaccia, così non vi sbugiardate). Fu l’apice di un’eufemisticamente aspra polemica, anche perché Bertolucci, improvvidamente, più che per trasparenza, sostenne che Maria Schneider era ignara di cosa sarebbe successo in quella scena, per larghi tratti ― quei tratti ― totalmente improvvisata da Brando e quindi inattesa. Morale: la scena sconvolgente in realtà era uno stupro e il film d’arte guardandolo in un’altra prospettiva era uno snuff. Per Brando fu comunque l’ultimo tassello di una carriera unica e indimenticabile. Dopo, una caduta rovinosa fatta di film sbagliati, realizzati solo per denaro, incurante di incrinare un mito che comunque non pare averne risentito, e di alcune enormi tragedie familiari che lo segnarono profondamente.
Se avete scelto questo: siete dei maschilisti perversi e potenziali molestatori. Con nocciolina.
“Non è un test per donne” cit rivisitata. Peccato avrei scelto “Ultimo tango a Parigi” ma non mi ritrovo nella categoria, esiste una versione per sole donne? Sarebbe interessante!
Grazie per la commemorazione doverosa…
Non è maschilismo. E’ Marlon Brando. Può essere affrontato solo così. Sarebbe come cercare di affrontare il problema del patriarcato mentre si celebra Mary Poppins. Non vi sentite escluse. E potete scegliere lo stesso. Anzi, che tu/lei abbia scelto “Ultimo tango a Parigi” ci può stare. Volendo, tutto è pur sempre materia per l’analista.
Ottimo, provvederò a portare i risultati del test alla prossima seduta! In realtà era la tua/sua interpretazione psicanalitica ad avere un taglio “specifico” ma la si può riadattare… Grazie del commento!