Due parole sulla fine del Torino Film Festival, Zerocalcare, Eastwood e pure su Daniele Capezzone

Due parole sulla fine del Torino Film Festival, Zerocalcare, Eastwood e pure su Daniele Capezzone

È finito il Torino film Festival, alleluia, alleluia! Non ne potevo più. Come ormai saprete, il mio festival ideale è stato quello dell’anno scorso: tutto online. Per non farla lunga e non obbligarvi a rileggere quanto scritto un anno fa, a onta del link che pur vi ho inserito, l’anno scorso cliccavo sul film in programma, me lo vedevo quando ero comodo entro le 48 ore previste, lo bloccavo nell’impellenza di una minzione (tanto non ci avrei messo 48 ore, anche se qualche dubbio mi è venuto qualche giorno fa, quando, dopo aver bevuto una bottiglietta da 0,75 litri di San Benedetto frizzante, sono dovuto scappare al termine di una proiezione e farne una lunga 4 minuti e mezzo ― giuro! ―, bianca come la weiss, con due urinatori dilettanti che mi guardavano sgomenti, vedendo che pur essendo entrati dopo, e uno al termine dell’altro, uscivano dalla toilette prima di me mentre io restavo lì e continuavo imperterrito, con la consapevolezza che sarei stato l’invidia di mio zio Tonino, che secondo i racconti di mio padre ha sempre coltivato il sogno di bere tantissimo per farne tanta come un cavallo) e, dicevo qualche minuto fa, una volta terminato il film cliccato, visto ed eventualmente bloccato in caso di bisogno, se ne avessi dovuto scrivere, lì, sulla stessa sedia, avrei aperto un file di Word per scrivere due cose credibili con aggettivazione roboante affinché poi, una volta pubblicato, se ne apprezzasse quantomeno l’impegno. E nel frattempo mi potevo bere una birra, un caffè, un bicchiere d’acqua, sgranocchiare un biscotto, stare senza mascherina e aprirmi voracemente in un ciclopico sbadiglio. Senza cercare inutilmente parcheggio per 25 minuti e, una volta fortunosamente trovato, spendere dieci euro solo sabato mattina per poi vedere due film piuttosto discutibili. O non iniziare a scrivere una recensione a mezzanotte e mezza, perché ormai tutto dev’essere in rete in tempo reale. Ma non temete, non ne discuterò. Così come eviterò di parlare di ciò che mi è parso, in mancanza dei soliti dati giubilanti sull’aumento degli accreditati (bella forza, se l’accredito lo dai a chiunque apra un blog ― come questo, per esempio ― sfido a non aumentare il numero degli accreditati. Risultato? Ora l’accredito costa 55 euro e puzza più di quello che una volta si chiamava abbonamento che di accredito, che invece fino a qualche anno fa era ovviamente gratuito. Ma che fai, oggi ti lamenti dei soldi? Ma no, quantifico solo aritmeticamente la mia perplessità). L’impressione che ho avuto dal Festival è che tutto fosse come attutito, come quando si urla in un paesaggio innevato. Ve la ricordate la neve? Quella cosa bianca che cadeva fino a metà degli anni Ottanta? Ecco, quella. Non mi riferisco solo alla partecipazione, per forza minore, vuoi un po’ per le difficoltà di spostamento, un po’ (ancora) per il timore inevitabile delle sale piene, e vuoi anche perché magari tra i cinefili incalliti da festival qualche dickhead No Vax ci sarà di certo (e senza il Green Pass, non ancora Super, nelle sale comunque non si entrava, come ormai saprete tutti), ma anche per la globalità del programma, decisamente sotto tono. Privo di una vera rassegna, se si esclude l’omaggio di nicchia ai due filmmakers libanesi Joana Hadjithomas e Khalil Joreige (qua, per sapere brevemente chi sono), e con Sing 2 come film d’apertura. Neanche il primo, che già era quello che era. Il secondo. E se tanto mi dà tanto, se inizi con Sing 2 dove pensi di andare a finire? Per la cronaca, ha vinto il turco Between Two Dawns di Selman Nacar, che non ho visto. L’avrebbero replicato domenica sera ma mi sarei perso il fantastico gol direttamente su calcio d’angolo di Juan Cuadrado contro il Genoa, per cui, per il momento, niente da fare. Qualcosa d’interessante, però, c’era pure. Clint Eastwood: A Cinematic Legacy, una serie televisiva in nove puntate sulla carriera di Eastwood che emoziona solo per il fatto di esistere, al di là delle assurde dimenticanze (dov’è finito Un mondo perfetto, il mio Eastwood preferito? E Changeling, quasi parimenti stupendo?) e di qualche momento agiografico che comunque, in tutta coscienza, non mi sento affatto di condannare. What Josiah Saw, horror indie di Vincent Grashaw che gioca sulle tare e sulle perversità familiari, facendo scaturire l’orrore da fantasmi che impongono (ai personaggi e al pubblico) le loro tragiche prospettive. Les intranquilles di Joachim Lafosse, pellicola claustrofobica, per argomento e stile adottato, sulla bipolarità di un padre visto attraverso gli occhi del figlio e della moglie (anche se un giorno, Lafosse, quando sarà pienamente adulto, dovrà mostrare di aver superato il trauma della separazione dei genitori, lo dico affinché non parli sempre della stessa cosa nei suoi film). La abuela del regista horror spagnolo Paco Plaza, capace, per almeno un’ora di generare un’inquietudine sottile e profonda giocando solo sull’irrazionalità della vecchiaia e sul disfacimento del corpo. E Good Madam, in cui Jenna Cato Bass rilegge (anche lei) in chiave horror l’incapacità di parte della popolazione nera sudafricana di emanciparsi dal giogo della minoranza bianca anche a distanza di trent’anni dalla fine dell’apartheid (permettetemi un consiglio sullo stesso tema: leggete il recente Booker Prize, La promessa, scritto da Damon Galgut e pubblicato in Italia meno di un mese fa da e/o. Merita). La scena più divertente e imprevedibile di tutto il Festival (anche se conoscendo il cinema di Hong Kong uno se l’aspetta) è il salvataggio di un bambino in Raging Fire, ultimo action movie di Benny Chan, scomparso dopo le riprese (qua, se avete 30 secondi da perdere). E anche quest’anno, abbiamo dato: dopo aver fatto una vita infame per una settimana, almeno per un anno possiamo stare tranquilli. Vaya con Dios, festival!

Non so se avete letto sui giornali delle puerili polemiche che ha suscitato la serie scritta, disegnata, diretta e anche interpretata da Zerocalcare, Strappare lungo i bordi. Se non le avete lette, ci sarà un motivo, direte voi, per cui non vedo perché dovrei parlarvene io, ma è proprio quello che invece farò. Brevemente. Dunque, Zerocalcare realizza per Netflix ‘sta serie in sei episodi della durata di una ventina, scarsa, di minuti ognuno. Bellissima, c’è da aggiungere. Una sorta di flusso di coscienza inarrestabile che è anche un diario intimo, nel quale ogni aspetto elementare della quotidianità diventa una riflessione su un’intera generazione, quella nata all’inizio degli anni Ottanta (ah, ‘sti giovani Millennials), condotta perennemente sopra ritmo, con una voce narrante che funge da connettore per ogni singolo evento e con ciascuna inquadratura che si apre a ventaglio come un diorama di citazioni ed elementi significativi (mi è quasi preso lo schizzo di scrivere significanti, ma vi ho graziato). Commedia e anche melodramma, analizza con humour e si piange addosso con enorme ironia, coerentemente con la maschera di insicuro e sfigato che Zerocalcare si è costruito sapientemente addosso pur essendo da tempo, e ora più che mai, un autore di culto. E altrettanto coerentemente con quel principio per cui appena uno ha fortuna, il mondo inizia a scassargli la minchia (i tedeschi la chiamano schadenfreude, che è una parola bellissima, ma da noi è diventata un’arte), ecco che prima si ribella la città di Biella, pronta a rispondere all’accusa di essere una cittadina «in cui si muore dentro», anche se Biella è stata estratta dal bussolotto come emblema della cittadina di provincia, come una volta era Voghera o come la Miragno di Pirandello (che neanche esisteva). Un luogo dell’anima con gente che s’incazza, insomma. Poi è scattata la polemica sull’uso del romanesco, sul quale vi sorprenderò, perché non esiste l’universo di Zerocalcare senza Rebibbia (non il carcere, il quartiere) e parlare un italiano senza pecche a Rebibbia avrebbe avuto lo stesso effetto straniante della commedia all’italiana parlata in veneto (c’è, ma è solo un’eccezione, vedasi Signore e signori di Pietro Germi) o se il capolavoro di Gadda si fosse invece intitolato Quel caso spinoso accaduto in via Merulana. Ammappate chemmerda. La mia contrarietà sull’uso del romanesco è sul contorsionismo funambolico che porta le sceneggiature a inventarsi trasferimenti di personaggi da Roma a Trieste per far parlare romanesco in Friuli, solo perché la dizione degli attori italiani è spesso la stessa di er Piotta. Perché l’universo di Zerocalcare non può NON parlare romanesco almeno quanto il mondo preindustriale di Pasolini (nato a Bologna e cresciuto in Friuli, è bene ricordarlo) non poteva NON riflettere il lessico delle borgate. In Pasolini era poesia del realismo, in Zerocalcare è motore ritmico e coerente scelta espressiva. Infine, senza contare coloro che si sono lamentati di aver intravisto sullo sfondo il simbolo del PKK e hanno urlato al terrorismo (ma che cazzo lo guardate a fare?, lo sapete come la pensa: io una serie creata da Roberto Fiore mica la vedrei), l’ultima risibile polemica è stata quella con Daniele Capezzone (quello con la faccia da nerd cresciuto nei Radicali e pasciuto in Forza Italia, spesso in varie trasmissioni televisive come opinionista. Pensa un po’), il quale lamentava in un post su Instagram la «lagna e il disagio come dimensione esistenziale» del fumettista, contrapponendolo a Clint Eastwood come rappresentante «della lotta, della sfida dell’individuo contro ogni potere». Clint Eastwood??? Ma davvero? Quello che quando era Callaghan sparava in faccia ai malviventi perché le istituzioni erano troppo molli con il crimine? Quello che ora si batte contro chiunque, sia esso il potere, siano i cattivi, ma solo perché giunto a superare i novant’anni guarda retrospettivamente alla sua vita e alla sua carriera e ha deciso di fare il cazzo che gli pare, proprio perché dotato di una personalità talmente debordante da fottersene del mondo? E, sia chiaro, io adoro Eastwood anche quando spara in faccia ai malviventi, lo amo sempre, anche quando scala l’Eiger dal versante in ombra, perché, come diceva Godard, che sicuramente era ancora più a sinistra di me, «Come posso odiare John Wayne che appoggia Goldwater e amarlo teneramente quando solleva bruscamente con le braccia Natalie Wood nelle penultima bobina di Sentieri Selvaggi?». Esatto. Si riesce perfettamente, ma dire che quella di Eastwood è la lotta anarchica contro il potere significa dire cose ad mentula canis, perché la sua è solo l’ennesima riprova di un ego catalizzante e ancora mortalmente affascinante per il pubblico. È uscito da qualche giorno Cry Macho, il suo ultimo film (e vista la forma in cui versa il vecchio Clint, si suppone non sia il definitivo) e Cry Macho dimostra la vacuità della polemica. Vi ho rubato già troppo tempo, per cui, se siete ricchi di famiglia e avete tempo da perdere o siete dei lettori bulimici, vi rimando a questo, in cui si chiarisce meglio quello che sto dicendo.

Una notizia per concludere. Massimo Ferrero, presidente della Sampdoria, ieri, all’ora di pranzo, è stato arrestato per bancarotta. Secondo l’accusa avrebbe distratto fondi per non rifondere i creditori. E che c’entra? Vorrai mica parlare di calcio? No. Non è perché il blog è mio e scrivo del cazzo che mi pare, come pure dissi una volta. È perché Massimo Ferrero, detto nell’ambiente “Viperetta” (anche se a me attualmente ricorda Charlie Manson), nasce come produttore cinematografico. E il suo arresto non mi sorprende, così come non sorprende molti, anche limitandosi a una semplice impressione. Non mi sorprende, non perché sia un giustizialista affamato di sangue, quanto perché, invece, tanti e tanti anni fa lavorai nel casting di un suo film, l’inutile Libero Burro, regia di Sergio Castellitto, trovai l’attore per il personaggio di Orso dopo una serie lunghissima di provini e non fui pagato (di nuovo? Eh, si vede che ai coglioni capita spesso). Anzi, vestito come un gagà anni Quaranta mi diede centomila lire del milione che mi doveva e mi disse: «te devi considera’ fortunato». In romanesco, nuovamente, che secondo il gergo modulato dalla commedia all’italiana è la forma per farti capire di non farti illusioni perché c’è sempre qualcuno più furbo di te che tronca le parole e non perde tempo a dirle per intero. E non mi sorprende sulla base di una semplice equazione, visto che oggi l’aritmetica la fa da padrona: se doveva novecentomila lire a me da quasi venticinque anni, quanti debiti avrà maturato nei confronti del resto del mondo nello stesso periodo? Senza contare gli interessi, ovviamente.

Massimo Ferrero con il capotifo della curva Sud Ricky Memphis in Ultrà di Ricky Tognazzi

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.