Doppio trailer per l’anno che verrà

Doppio trailer per l’anno che verrà

Nell’ultimo post abbiamo parlato dei migliori film del 2021, ora ci portiamo un po’ più avanti e parliamo di due dei film più interessanti che usciranno nel corso di quest’anno. Sempre che le sale rimangano aperte e che si riesca a sopravvivere senza mangiare pop-corn e bere Coca cola (immagino si possa, mentre le sale patiranno un po’ di più, soprattutto adesso che la gente al cinema ci va molto meno). O anche, al limite, che si riesca a sopravvivere e basta. Ma facciamo finta che vada tutto per il meglio. E allora a marzo usciranno Belfast di Kenneth Branagh e C’mon C’mon di Mike Mills, con Joaquin Phoenix, già circolati qua e là per i festival (a Toronto il primo, a Roma il secondo). Diversissimi tra loro, anche solo per epoca e ambientazione, ma accomunati dall’essere entrambi in bianco e nero e dall’avere l’infanzia come argomento principale e filtro del racconto. Un’infanzia che si manifesta, in entrambi i casi, con un bambino di nove anni. E osservare un bambino di nove anni nel 2022, almeno per me, è un motivo di interesse di per sé, che esula dalla sola questione cinematografica.

Belfast

Il primo racconta l’infanzia di Kenneth Branagh nella Belfast del 1969, che all’epoca (e fino a non tantissimi anni fa) era una simpatica cittadina in cui dalla sera alla mattina comparivano barricate a difesa di strade altrimenti devastate dalla furia vicendevole di cattolici e protestanti, ognuno pronto a rivendicare il suo diritto a risiedere sul suolo nordirlandese sfanculando l’altro per un Papa in più o in meno (se volete farvene un’idea cinematografica, guardatevi non tanto l’ottimo Bloody Sunday, che è ambientato a Derry, ma ’71 di Yann Demange, magnifica lezione su come si costruisce la suspense). Il secondo è il tenero viaggio di avvicinamento tra uno zio e il figlio di sua sorella, condotto tra Detroit, Los Angeles, New York e New Orleans. Viaggio da leggere anche come un’autentica immersione all’interno dei desideri, dei sogni e dei pensieri dell’infanzia americana nella sua intera spazialità condensata lungo i quattro punti cardinali della nazione, utilizzando il pretesto di una serie di interviste radiofoniche (dello zio, giornalista), in cui un campione rappresentativo di bambini racconta se stesso.  

C’mon C’mon

Anche se i due novenni Buddy e Jesse sono protagonisti, nessuno dei due lavori è il classico percorso di formazione, perché entrambi utilizzano invece l’infanzia in una funzione dialettica che si fa rivelatoria dell’età adulta, utile premessa per leggere la storia recente dell’Irlanda del Nord e le ricadute inevitabili sulla vicenda personale successiva di Branagh, nel primo caso, oppure, nel secondo, per permettere all’afflitto zio Johnny interpretato da Phoenix di conoscersi introspettivamente (anche attraverso l’antologia di interviste radiofoniche con cui egli si confronta per lavoro e che restituiscono una visione degli adulti impossibile da immaginare se non nella spontaneità caratteristica dell’infanzia). Come se gli autori volessero capire meglio se stessi in funzione di ciò che è stato (Branagh) e di ciò che invece sta attualmente accadendo (Mills, che ha un figlio di nove anni, Hopper, avuto dalla sua compagna, la regista Miranda July).

C’mon C’mon

Buddy in Belfast è il filtro della visione. Non potrebbe essere altrimenti, perché è lo sguardo retrospettivo di Branagh sulla sua memoria di oltre cinquant’anni anni fa. Non è una visione soggettiva, ma è la soggettività di una sensazione fissata nell’idealità di un ricordo. Basterebbe citare una sola, breve e divertentissima scena al ralenti nella classe del piccolo Buddy, quando il suo volto, raggiante, pregusta il momento in cui la maestra lo farà sedere accanto alla prima della classe, di cui è innamorato, come merito per i risultati raggiunti nelle recenti verifiche, espressione che si riempirà immediatamente dopo di delusione quando invece scoprirà che l’allieva è stata superata da un altro compagno di classe e che quindi è finita dietro di lui, ancora più difficile da contemplare. Buddy non vede e noi non vediamo mai attraverso lui, perché la sua espressione beata si rivolge a un fuoricampo che per esigenze di gag deve rimanere insaturo fino a rivelarsi solo alla fine in qualità di sorpresa, ma il suo personaggio si fa superficie riflettente di un mood, così come, allo stesso modo, l’intera città e la sua cruda realtà sono restituite da una sola strada, microcosmo sineddochico di relazioni, rapporti, conflitti politici troppo grandi da consentire a un bambino di nove anni di averne una visione globale che vada davvero oltre la sua porta di casa. Se Belfast è visione della memoria, C’mon C’mon è invece assorbimento. Jesse non è il fulcro della narrazione, ne è il suo volano. È ciò che permette allo zio Johnny di fare i conti con una sensibilità da sempre passiva e che dopo alcuni traumatici drammi personali pare aver definitivamente smarrito. È lo scambio affettivo, il timore della responsabilità, la percezione quotidiana della difficoltà educativa a creare quello scambio al quale Johnny attinge come una spugna, immergendosi in una realtà emotiva che richiede una personale messa in discussione intima ben più probante dell’ascoltare professionalmente un cospicuo numero di minori intervistati.

Belfast

Sia Belfast, sia C’mon C’mon, ognuno con le sue specifiche prerogative, lavorano sulla lente bifocale della prospettiva infantile per far emergere un ritratto degli adulti visto in un controcampo altrimenti ignoto. Il film di Branagh riflette sul peso dell’origine, sul portato di un’infanzia drammatica osservata con i toni nostalgici di una commedia familiare; il lavoro di Mills sul lirismo di un confronto dialogico costante volto a erodere le distanze, psicologiche e geografiche, poste come premessa narrativa. In tutti e due l’infanzia emerge anche come disposizione alla finzione. Che può essere semplicemente un gioco, apparentemente innocente (ma al quale, se capitasse davvero, potrebbero essere interessati alcuni neuropsichiatri infantili), come in C’mon C’mon, in cui il piccolo Jesse si addormenta soltanto se finge di essere un orfano adottato dallo zio, obbligato parallelamente a simulare di aver perso un figlio. O che può assumere una valenza metanarrativa, coerente con la perfezione del ricordo, come in Belfast, in cui le sequenze dei film eroici visti dal piccolo Buddy (Mezzogiorno di fuoco, L’uomo che uccise Liberty Valance, dove, ricordiamolo, non piove manco per il cazzo) si materializzano nella strada in cui si affaccia casa sua come se questa fosse la Main Street di Hadleyville o di Shinbone e i genitori si elevassero a una statura epica, con le loro sofferte decisioni quotidiane trasformate in atti valorosi volti a proteggere la famiglia (la madre, ad esempio, difende Buddy da un’improvvisa sassaiola utilizzando come scudo il coperchio di un bidone dell’immondizia con cui fino a pochissimi secondi prima lo stesso Buddy stava giocando). Nella dimensione dell’infanzia, la finzione è una porta a ventola come quelle dei saloon, pronta a diventare essa stessa narrazione con la sua magia immaginifica, perché gli unici sprazzi di colore nei due film compaiono con motivazioni reciproche, ma sempre a cavallo della relazione tra (cruda) realtà e sua elaborazione fantastica: in Belfast è il cinema visto in sala dalla famiglia di Buddy a mostrarsi nel fulgore del suo Technicolor, obbligando tutti i membri, nonna compresa, a un movimento sui seggiolini che asseconda quello delle immagini sullo schermo (la nonna, a proposito, è una fantastica Judi Dench, caustica e puntuale nei confronti del marito, un altrettanto strepitoso Ciarán Hinds, un altro true belfastian ― anche se qualche spiritoso che non li ama li chiama belfastard). In C’mon C’mon, di contro, il colore compare come omaggio e attributo di (spiacevole) realtà in un solo quadro nei titoli di coda che ha tanto il sapore del necrologio, perché rende omaggio a uno dei bambini intervisti a New Orleans, ucciso poco prima del termine delle riprese per un proiettile vagante in strada, manco fosse la Belfast del 1969. Tutto il resto dei due film, si diceva, è in un inappuntabile bianco e nero. Nettamente contrastato in Belfast, per merito dell’abituale collaboratore di Branagh, Haris Zambarloukos; più sfumato e attento alla scala dei grigi quello di Robbie Ryan in C’mon C’mon, emblematico delle mezze tinte nelle quali si riflette l’osmosi emotiva tra i personaggi. Pur nella loro sostanziale differenza, qua forzata per trovare delle similarità che a un’altra analisi potrebbero apparire anche arbitrarie, due prodotti notevoli con cui iniziare la prossima stagione, quasi un trailer per l’anno che verrà. E noi ci stiamo preparando, è questa la novità (sottotesto: Vedi caro amico cosa si deve inventare. Per poter riderci sopra. Per continuare a sperare).

a don Vito, giunto sul fronte occidentale.

Kenneth Branagh e Jude Hill sul set di Belfast (a sinistra); Mike Mills e Woody Norman su quello di C’mon C’mon (a destra)

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

4 Risposte a “Doppio trailer per l’anno che verrà”

  1. premesso che qui – nell’universo mondo – qualcosa ancora non va e auspicandomi la sparizione dei cretini di ogni età, vengo alle solide (e solite) certezze:
    1) nel 2022 leggerti è sempre un piacere
    2) ’71 è un film coi controcazzi e talvolta (non voglio dire “una volta” per non passare per nostalgica) al Tff si vedono dei gran bei film
    3) anche io (immodestamente) azzardo parole che possono suonar dissonanti come “ossimorico” ma quel “sineddochico” che pare lo stridio di un pugno di cornflakes sulla lavagna, batte tutto!!!

    detto ciò, buon anno e al prossimo cheers!

  2. Be’, buon anno anche a te.
    ti do soddisfazione numerica:
    1) troppo buona. grazie dell’avverbio che hai misericordiosamente aggiunto: pensa se fosse un piacere solo da questi otto giorni che roba tremenda sarebbe…
    2) la media è sempre piuttosto bassa. è un dato numerico. in un festival di media levatura (quindi non Cannes, non Venezia, non Berlino, non il Sundance, non Toronto e poco ecc.) i film interessanti sono 3 o 4. difficilmente di più. di questi 3 o 4, solo uno, massimo due – e non tutti gli anni – fanno gridare al miracolo, ma sicuramente sono film già circolati nei festival di cui sopra, quindi il merito di proporli risiede solo in un’ottica esclusivamente provincialistica.
    è il cane che si morde la coda, quindi quello che dici ci sta.
    3) ossimorico e sineddochico appartengono alla stessa matrice; più che retorica, è il tentativo di fare ammuina quando si hanno le idee poco chiare. un po’ come le mischie nel calcio o quando spacchi con violenza a biliardo: magari qualcosa di buono ne esce.
    non sprecare così i cornflakes, non te lo diceva mamma che c’è gente che muore di fame?
    ciao!
    PS: l’acronimo, ops, pardon, la sigla, per cosa sta? (e)levati (l)ettori (e)sauditi (n)ell'(a)nima? 😉

  3. Segnati entrambi! Incrocio le dita, sperando di riuscire a vederli in sala e ti ringrazio per i consigli, sia per l’anno passato che per quello che verrà.
    Un abbraccio

    1. Ciao Tomi, un grande abbraccio a te e un grande augurio per tutte le tue novità. 😀

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