Diciamocelo. Richard Linklater è uno dei registi più sottovalutati degli ultimi trent’anni. E il fatto stesso che vi stiate dicendo «ma chi se ne fotte?», ne è la prova. Certo, non è che qua lo si voglia inserire in un empireo sullo stesso piano dei Nolan o degli Andersons, no; Linklater veleggia al suo livello, non gliene frega di nessuno e, a quanto pare, a pochi frega davvero di lui. Eppure, e non si può negare, pur nella sua opacità di personaggio che produce senza tanti clamori, pochi come lui hanno delineato una così limpida coerenza espressiva che si rinnova di progetto in progetto, di decennio in decennio. Ad esempio, si può negare che nella maggior parte dei suoi film, quelli più personali, quelli realizzati per seguire il proprio istinto e non le esigenze alimentari, Linklater sia uno degli autori che più hanno riflettuto sulla trasformazione diacronica del tempo e delle sue conseguenze?
Immagino abbiate presente il trittico sentimentale formato da Prima del tramonto (1995), Prima dell’alba (2004) e Before Midnight (2013), nei quali Ethan Hawke e Julie Delpy ci mostravano scene da un matrimonio diluite in un intervallo di nove anni le une dalle altre. Immagino abbiate anche presente quel capolavoro di Boyhood (2014), in cui il giovane Mason veniva raccontato come side project rispetto alle altre produzioni (quelle alimentari) dai 6 anni fino ai 18 in un curioso esperimento di crescita tangibile del protagonista condensata in quasi tre ore di durata in riprese organizzate nel corso di una dozzina di anni (certo, esperimento non nuovo: il Doinel di Truffaut seguiva un principio simile, così come le Up Series di Paul Almond e Michael Apted, con quattordici bambini inglesi accompagnati per ben 48 anni; oppure la figlia di Nikita Mikhalkov in Anna: 6-18, utilizzata con amore ma anche come pretesto per parlare della progressiva dissoluzione dell’Unione Sovietica). Di riferimenti relativi al tempo, nel cinema di Linklater, ce ne sono molti altri, dalla contrazione in una sola giornata del suo primo film, Slacker, dell’ormai lontano ’90, alla rievocazione del tempo che fu di Tape (2001), all’aggancio tra Dazed and Confused (1993) e la nidiata successiva di ragazzoni di Tutti vogliono qualcosa (2016). Il tempo come ossessione, non per spiegarlo attraverso le sue varie possibilità, come fa Nolan, quanto per mostrarne lo sviluppo condensato nella sua forma.
Quando non è ossessionato dalla spirale del tempo, Linklater fa ugualmente dei buoni film, apparentemente leggeri ma in cui dimostra sempre la pienezza del suo mestiere. Un esempio su tutti? School of Rock (2003): se ve lo ricordate come una minchiata, riguardatelo, perché è vero che il concerto finale dei bambini è la logica deriva di ogni sceneggiatura dei film ambientati in una scuola, ma l’impatto rovinoso alla John Belushi di Jack Black sulle consuetudini didattiche degli allievi è davvero dirompente (per non parlare della celebre lavagna diventata un’icona, questa qui sotto 👇🏻: la lezione che ho sempre sognato di fare per convertire le vili menti del trap ma che ho sempre limitato alla mia formazione personale, partita dalla zona di centro destra – sulla lavagna, non politica, eh! –, per poi raffinarmi e scendere lievemente più in basso, salvo poi intamarrirmi e spostarmi ulteriormente verso sinistra, sempre intorno al centro, tenendo ferme le passioni per ciò che compare all’estremo nord e all’estrema sinistra. E voi, invece, che percorso siete?).
E Hit Man (sottotitolo italiano Killer per caso, giusto per non lasciare niente, al caso) è uno di questi film. Non è aderente alle logiche personalissime e ossessive del tempo, ma è ugualmente un lavoro in cui è palese l’innata professionalità del regista, la sua cura nello scrivere e poi la regolarità geometrica nel mettere in scena le sue storie. Destino strano, quello del film, oltretutto, perché Netflix ha firmato un contratto di distribuzione in streaming worldwide tranne che in Italia, dove uscirà il 27 giugno in sala. Tre settimane dopo la distribuzione negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, persino Corea del Sud e India ecc., e in un fine giugno che forse è il periodo migliore affinché un film si perda nel nulla. Come dire: cos’è meglio, smarrirsi in un periodo cinematograficamente di merda o a causa di un algoritmo miope? Voi vedetelo e fotteteli, perché è uno dei film più frizzanti della stagione.
La storia è tratta da un articolo pubblicato più di 20 anni fa sul «Texas Monthly» da Skip Hollandsworth (chi diamine legge il «Texas Monthly»? Linklater, perché è di Houston), in cui si raccontava la doppia vita di un professore di filosofia e psicologia che per arrotondare il magro stipendio piazzava cimici e poi cominciò anche a fingere di essere un sicario per il dipartimento di polizia di New Orleans, come si evince anche dall’utilizzo, nel film, della musica di Dr. John, da sempre il vero padrone della città, che sulla lavagna iconica sarebbe posizionato verso l’estrema sinistra. (Mentre, riguardo al bisogno degli insegnanti di arrotondare lo stipendio, come dicono gli americani del sud, «All world is a village»: senza per forza riferirsi all’ovvio Walter White, professore di chimica produttore di metanfetamine in Breaking Bad, lo faceva anche il dimenticato James Mason in una rimessa di taxi in Dietro lo specchio di Nicholas Ray; lo faccio pure io, altrimenti perché sarei qui a raccontarvi ‘ste amenità e lo faceva persino un mio insegnante delle scuole medie, dedito alle rapine notturne dei treni portavalori. L’unico insegnante di cui abbia mai davvero avuto paura nella mia vita, utilissimo per comprendere a posteriori quali siano i meccanismi per i quali una classe di demòni, teppisti e bifolchi cambi completamente atteggiamento nell’arco di un cambio dell’ora e si trasformi in una schiera di chierichetti dal mutismo selettivo. Avete presente quel sottile odore antropologico che segnala il vero pericolo?).
Dicevamo. Hit Man è un film scritto benissimo, con dialoghi taglienti e cadenzati al secondo, perché basterebbe infilare una battuta al momento sbagliato per far crollare il tutto. E non succede. Ed è un lavoro che riflette sul concetto di identità. Di chi si è veramente, motivo che investe anche le caratteristiche del film stesso, (volutamente) impossibile da inquadrare o classificare. Senza spoilerare nulla, perché sarebbe un delitto in piena regola, visto che questo è proprio il genere di film che non si gusta se si dovesse sapere mezza cosa in anticipo, possiamo limitarci ad arguire insieme che se un individuo, un placido docente universitario, considerato un mezzo sfigato dai suoi stessi studenti, improvvisamente si ritrova per i giochi del caso e della necessità a dover incarnare un killer freddo e spietato con il compito di incastrare i committenti, potrebbe, immagino, subire qualche sconquasso a livello personale, che nella narrazione si traduce nei misunderstanding che da sempre caratterizzano la commedia dai Menecmi di Plauto in avanti (anche se Plauto suppongo non li chiamasse misunderstanding. Forse). Per farvi capire, qua sotto vedete come il professore scende dal furgone che funge da centrale operativa per iniziare la sua carriera di credibile sicario. Ecco, nella distanza che intercorre tra Gary lo sfigato e Ron il superfigo, contemplando nella stessa distanza le conseguenze che si generano, sta tutto il film.
Così come si insiste fin nelle fasi preliminari (grazie a un guazzabuglio che collega Nietzsche, Jung e Freud), «uno è chi vuole essere», che pare un messaggio molto americano calvinista Wasp e capitalista, viviamo ‘sto sognommericano ché noi lo abbiamo e gli altri ce lo possono solo invidiare, ma in realtà si tratta di una riflessione critica che verte sull’individuo, sul suo smarrimento, sul bisogno di abbarbicarsi a un riferimento comunque fondato sul nulla per apprezzarsi vivendo pienamente. Come vivere di sogni e rischiare di trovarsi col culo per terra.
Proliferazione dell’identità che si riflette, come accennavamo, anche nelle modalità in cui è proposta e quindi assunta la storia. Che inizia come una Black comedy, diventa a un certo punto una commedia romantica, si trasforma improvvisamente in un thriller anche piuttosto soffocante, grazie alla scrittura di Linklater e di Glen Johnson, il killer per caso del film, capace di sovvertire gli elementi dati fino a quel punto per spiazzare lo spettatore togliendogli ogni convinzione. Sarebbe anche un’attenta disamina (filosofica?) sulla possibilità dell’uomo di andare oltre le sue stesse certezze e di cambiare per raggiungere i propri obiettivi, ma rileggendola mi pare davvero così tanto una stronzata che la cancello pregandovi di non darle alcun peso.
In realtà, la grande forza di Hit Man risiede nella sua enorme imprevedibilità: sfido chiunque a dirmi «ahh, questo me l’aspettavo!» a meno di non millantare. Ogni plot point è inatteso e chi dovesse azzeccare una svolta narrativa lo farebbe unicamente per culo, perché la sceneggiatura gioca con gli spettatori come il gatto con il topo: ti fa imboccare una strada per poi salutarti beffardamente su quella parallela, a distanza. Lo può fare perché la vicenda lascia aperte sempre due o tre porte e tutte possono essere parimenti attraversate, avviando una nuova lettura possibile. E tutto è raccontato con un ritmo indiavolato, con situazioni e personaggi caratterizzati come nella migliore tradizione della commedia. Siamo nei territori di Out of Sight (o di In Bruges, ma con molta meno esibizione macabra rispetto alla media di McDonagh) mediato da una rilettura totalmente screwball alla Frank Capra o alla Leo McCarey. Quello di Linklater è un tocco soft e lucidissimo. E voi dovreste avere il dovere morale di vederlo, sfidando la sce(llerata)lta di farlo uscire adesso, quando uno sogna angurie e birre ghiacciate e non certo il chiuso di un cinema, o di relegarlo in seguito su una piattaforma per la quale un capolavoro vale quanto il documentario in tre puntate su una famiglia disfunzionale del Wisconsin.
Seguirò il consiglio! Grazie GF sempre illuminante…