Deep Red Carpet

Deep Red Carpet

C’era una volta un festival di ricerca. Si chiamava Festival cinema giovani, prima di assumere l’attuale e più connotato nome di Torino Film Festival. Un festival che ricercava lavori in qualche modo innovativi. Che si interrogava sulle forme prima che lo facesse, quest’anno, Venezia, la quale, non a caso, ha il direttore che una volta aveva questo festival. Che scopriva autori nuovi che avrebbero comunque inciso sulle tendenze immediatamente successive. Qualche nome? Jane Campion, Leos Carax, John Sayles, Jim Jarmusch, Alex Cox, Chen Kaige, Ishii Sōgo, Takeshi Kitano, Hou Hsiao-hsien, Alejandro Agresti, Tsai Ming-liang. C’era una volta un festival che era un paradiso per quella categoria di noiosi problematici che sono i cinefili. Perché ti permetteva di incontrare cinematografie altrimenti sconosciute, in un periodo in cui un certo tipo di film si poteva vedere solo in sala o grazie a Fuori Orario il sabato notte. Ma in genere, era sempre da qui che passavano per primi. La Nouvelle vague, la Nová vlna cecoslovacca, Il Cinema Novo brasiliano, il Free Cinema inglese, il cinema ungherese anni Sessanta, quello africano degli ultimi cinquanta, quello messicano, gli indipendenti americani, il New American Cinema, dal cui vortice mi rimisi molto, ma molto tempo dopo (e mai del tutto: ho appena acquistato un bellissimo cofanetto francese della Re: Voir, Diaries, Notes and Sketches, che raccoglie gran parte dei film di Jonas Mekas: stupendo, non ci sono altre parole per dirlo).

E si vedevano le retrospettive su quegli autori che proprio grazie al Festival cominciavano a penetrare in Italia e a far parte di un canone che diventava ogni anno sempre più vasto. Michael Haneke ai tempi del primo Funny Games, che mise a dura prova la portata etica del pubblico; la romantica resistenza umana di Robert Guédiguian; Mohsen Makhmalbaf quando tutti conoscevano soltanto Abbas Kiarostami; João César Monteiro e il suo cinema inclassificabile (l’album di peli pubici visto in A Comédia de Deus ogni tanto me lo sogno ancora); Paulo Rocha che mi shockò per la bellezza tragica del suo mai abbastanza lodato O rio do Ouro; Robert Frank, di cui adesso pare si accorgano anche le riviste trendy come «Notebook» e che dietro la sua patina da rivoluzionario Seventies aveva un’anima sensibile e una gentilezza spiazzante, caratteristiche che sperimentai in prima persona durante una lunga intervista che – ahimé – non so più che fine abbia fatto.

Robert Frank al TFF mentre fraternizza con gli autoctoni

Ora, e parlo dell’edizione conclusasi ieri, l’artista non tanto da scoprire, quanto da RIscoprire, è Marlon Brando. Sì, Marlon Brando, di cui parlammo questa primavera perché anche l’Associazione commercianti del Balôn gli dedicò un omaggio e lo fece ben prima. Occasione comunque ghiotta. Immagino che nessuno di voi conosca alcuni dei suoi film, Il padrino, Fronte del porto, Ultimo tango a Parigi; be’, il Torino Film Festival edizione 2024, la prima diretta da Giulio Base, vi ha offerto questa rara possibilità. Spero l’abbiate colta, altrimenti difficilmente potrete colmare la lacuna.

Questa la rassegna prevista. L’unica. Più stelle che film, in questa edizione. Angelina, Sharon, Ron Howard, Sarah Jessica Parker, Rosario Dawson. Torino in un improprio tentativo di scimmiottare Roma, ma con meno soldi e meno appeal glamour. Hai voglia a dire nelle dichiarazioni ufficiali che l’attenzione al divismo non è andata a scapito della cinefilia, per un festival che è stato popolare ma senza perdere identità. Chiunque abbia incontrato in questi giorni non mi ha chiesto che film interessanti avessi visto, ma se avevo incontrato qualcuno dei nomi elencati sopra. Certo, uno ti incontra e per creare quel legame estemporaneo, quel contatto conativo, ti chiede la prima cazzata gli venga in mente. Però è indicativo. Pure crearmi a tavolino un percorso coerente da seguire durante i giorni della manifestazione e su cui scrivere per giustificare la mia presenza da accreditato, è stata un’impresa particolarmente difficoltosa. Sia chiaro, non sono contro il Red Carpet, fa parte del baraccone, è la sua parte più immediata e attraente, è la radice stessa del successo del cinema come mezzo sociale. Ma non mi venite a dire che il Festival ha mantenuto intatta la sua identità, perché io la ricerca proprio non l’ho vista. Ho visto sempre e soltanto i soliti cinefili. Ma questi fanno parte del corredo, non del programma. Dopo un anno riaprono le sale per un altro festival e li ritrovano direttamente là.

Qualcuno, più attento degli altri, potrebbe obiettare che non dovrei rompere troppo le palle visto che odio i festival e che quindi il mio discorso è ipocrita e capzioso. Nel caso, avrebbe ragione anche lui. Ma siccome a volte sono obbligato ad andare perché mi pagano, allora ne parlo en passant con voi, se avete la consueta pazienza nel leggermi. E come avrete capito, ho visto poco di davvero indimenticabile. Il concorso l’ha vinto Holy Rosita, film belga di Wannes Destoop, commedia piuttosto innocua su una ragazza adiposa e instabile (scusate se dimentico per un attimo la grazia dell’inclusività) con un disperato bisogno di maternità che non è altro che necessità di esorcizzare un passato traumatico. Bello nelle intenzioni, discretamente raccontato, scontato però nelle dinamiche di realizzazione. Sufficiente per vincere, evidentemente. Ricordo che la migliore edizione per la qualità del concorso fu quella del 1995. In gara c’erano Poliziotto di quartiere di Ying Ning, che vinse (invero filmetto piuttosto mediocrino e facilone, ma quello era il momento storico in cui avrebbe vinto anche un involtino primavera, se solo avesse girato un film), Nick Gomez con New Jersey Drive, Il palloncino bianco di Jafar Panahi, À la vie, à la mort! di Robert Guédiguan, Koridorius di Sharunas Bartas, Pugili di Lino Capolicchio (che sul palco accusò il pubblico di non capire un cazzo – testuale – perché il film era stato fischiato. Io ricordo di aver passato tutto la visione a leggere i sottotitoli inglesi perché il napoletano che parlavano i personaggi, con tutto che mia madre fosse di Valle di Maddaloni provincia di Caserta e che il campano fosse l’unica lingua da lei conosciuta per cristonarmi contro, non riuscivo proprio a capirlo). E in concorso c’erano almeno due veri capolavori, Zusje di Robert Jan Westdijk, storia di un incesto con sorpresa girato tutto in soggettiva e Záhrada, dello slovacco Martin Sulik, una favola agreste divisa in capitoli dal gusto decadente e irresistibile. Entrambi esaltarono il pubblico e vinsero ex aequo il Gran premio della Giuria, lasciandomi netta l’idea che difficilmente avrei visto in concorso due film più belli. E quell’impressione ce l’ho ancora oggi, 29 anni dopo.

Záhrada

A quali film votarsi, allora, visto che i titoli proposti erano pochi, molti meno degli scorsi anni (così come le sale), e unica e solitaria la rassegna su un attore misconosciuto ricordato solo per il burro dall’uso improprio e per le bizzarrie del carattere? Così, a lume di naso, a quelli più sul pezzo, quelli maggiormente dentro alla nostra realtà, per apprezzarne la prospettiva. Molto bello e anche se non lo fosse, molto bello lo stesso, From Ground Zero, progetto collettivo visto nella confusionaria sezione Zibaldone (d’altronde, il nome…), nato dal coordinamento del regista palestinese Rashid Masharawi e composto da 22 cortometraggi realizzati da altrettanti filmmakers intrappolati nella Striscia di Gaza. Alcuni episodi sono strepitosi, perché mostrano la resilienza (parola di merda che odio profondamente, ma esiste e quindi la uso), il pragmatismo, il coraggio, l’orgoglio e la dignità di un popolo del quale, qua da noi, arrivano echi talvolta un po’ troppo distorti (come nel recente caso di cronaca dei tifosi del Maccabi Tel Aviv aggrediti in quel di Amsterdam: tutti allarmati per questa nuova ondata di antisemitismo, ma se solo arrivasse tutto, davvero tutto, le cose sarebbero quantomeno da ricalibrare). Altri episodi invece strepitosi non lo sono, anzi, si limitano a filmare e tutto l’insieme dà vita, come si è letto da altre parti, a «un film diseguale, per molti versi carente, senza uno stile riconoscibile, forse anche troppo lungo, realizzato con mezzi di fortuna». Ma ci interessa poco. Perché è nella forza delle sue immagini e nel coraggio di averle espresse che risiede un valore umano che conta più di quello artistico.

From Ground Zero

L’altro film interessante è sulla Bielorussia di Lukashenko, tra l’altro MAI citato durante l’intera durata della vicenda. Under the Grey Sky di Mara Tamkovich (Fuori Concorso) è un film altrettanto coraggioso, anche se la regista è emigrata in Polonia per evitare qualsiasi ritorsione. Si tratta della storia (vera) di una giornalista indipendente (nelle nazioni dell’ex Unione Sovietica le riconoscete perché hanno un mirino sulla fronte) arrestata durante una diretta vietata dalle autorità perché intende documentare l’arbitrio della polizia nei confronti dei manifestanti contro il governo. Una vicenda cupa, senza speranza, raccontata con cromatismi opachi, soffocanti e una cappa di rassegnazione che si fa beffe della dignità delle persone. Under the Grey Sky va oltre il consueto senso della repressione per mostrare il volto distaccato, talvolta quasi inquietantemente paternalistico di chi esegue gli ordini e sa bene che la sua forza risiede unicamente nella mancanza assoluta, per gli altri, di alternative cui appigliarsi, se non la fuga dal paese. Un film sul senso di accerchiamento che diventa presto nodo scorsoio.

Under the Grey Sky

Proprio all’inizio di Under the Grey Sky è successa la cosa che ha fatto da trait d’union di tutta l’edizione: l’aggressività con cui sono stati accolti i selezionatori quando hanno presentato i vari film. Non farò i nomi, ma loro ne sono ben coscienti, poiché credo che abbiano vissuto una specie di trauma: nell’ultima sera, uno dei selezionatori in questione ha subito urlato «non ve lo sto raccontando!» per prevenire qualunque rimostranza da parte del pubblico, come era accaduto dopo aver raccontato la prima scena, solo la prima scena, però dettagliata, del film della Tamkovich: un’autentica sollevazione popolare che dal fondo è stata vomitata fin nelle prime file. So che alcuni di voi, qualcuno lettore del blog della prima ora, è solito scagliarsi contro i rivelatori di spoiler, ma in quel casino che si è scatenato contro il povero presentatore, nessuna delle voci sentite in quella sera era la vostra. Lui l’ha presa bene, tutto sommato, perché alla fine ha tenuto a bada con ironia la permalosità della situazione patita. Meno bene è andata alla sua collega dallo spiccato accento romanesco, apostrofata in malo modo da un folle in prima fila che “avendo pagato, non voleva sentire assolutamente le sue stronzate”. E dire che avevo appena finito di pensare a quanto fosse stata brava a trovare tutti i riferimenti adeguati sulla maternità parlando di The Assessment (apprezzabile distopia su un mondo in cui è diventato impossibile avere figli anche in adozione, peraltro un’opera prima. Di Fleur Fortune), dopo che qualche sera prima aveva ripetuto per due volte «kammerspièl», bucandomi di fatto le orecchie con quella E calcata, a proposito del pessimo (eufemismo) Europa Centrale di Gianluca Minucci, in cui i personaggi parlano citando frasi di Manzoni e integrandole nel loro pesantissimo drammone politico. Un letterale disastro, per di più con l’aggravante della pretenziosità.

Per favore, pubblico del festival che una volta era di ricerca, manteniamo un certo aplomb. Lasciamo che questi ragazzi che vengono da fuori se ne vadano con un bel ricordo di Torino e non pensino che siamo una banda di cinefili isterici del cazzo. Anche se magari è proprio così.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

12 Risposte a “Deep Red Carpet”

  1. Grazie per la memoria storico/affettiva del Festival e dei Festival in generale… D’altronde sei « critico » e pure bravo!

  2. è un mondo alla deriva ……. il cinema e la musica gli vanno appresso.
    Gira voce che sarà direttore fino al 2028. Incrociamo le dita.

    1. Confidiamo in Chatrian, che è persona di grande preparazione ed esperienza.
      Aggiornamento del 3/12, ore 7:50: ospite del TG3 Regionale, Chatrian ha esplicitamente dichiarato che bisogna trovare un equilibrio tra la dimensione glamour e quella più intima, concentrata sui prodotti.

  3. Il dato su cui conviene fermarsi a ragionare è il seguente: piccola e grande, la critica ha disertato il festival. Penso che la cosa parli da sé.

    1. Mi fido ciecamente. Non so darti conferma: dopo il primo giorno ho smesso di andare nella sala delle proiezioni stampa, perché non collimavano con i miei orari. Però le varie passerelle sono andate sui telegiornali, che è quello che si voleva.

  4. Si voleva quello, sì. Per l’altra questione rimando alla lista degli accreditati stampa presente sul sito del festival. Mancano tante testate e siti, mentre c’è un numero infinito di persone legate a redazioni locali (Rai, Stampa, Corriere) che suona tanto come accrediti omaggio per riempire ……..

    1. Hai ragione. Vero. Però è una tendenza che i festival hanno e Torino, nel suo essere provinciale, non fa eccezione. La redazione completa dà lustro e rimpolpa le statistiche. Il giornalista regge il gioco perché non fa figo non essere nella lista e perché magari un paio di film se li va anche a vedere. Già che c’è.

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