Death of Lucifer Rising

Death of Lucifer Rising

Tanto per restare collegati idealmente al luciferino post precedente (di cui avrei voluto fare una palinodia con il sapore di debunker, ma non è adesso il momento), scopro per caso, anche perché l’hanno rivelato con grande comodo, che l’11 maggio in perfetto silenzio è morto a 96 anni Kenneth Anger.

Chi cazz’è?, avrebbe detto il commissario Auricchio in Fracchia la belva umana indicando la foto successiva al cadavere delle gemelle Anna e Babette Brown. Kenneth Anger è morto e io ci sono rimasto male. Non che sia sorpreso che uno a 96 anni possa morire, ci sono rimasto male perché quando ero molto giovane è stato uno dei pochi registi che guardassi con enorme meraviglia. Perché Anger è stato uno dei più grandi esponenti dell’Underground americano e io, beata gioventù!, amavo l’underground americano da impazzire: pensavo fosse il più grande momento di purezza visiva che si fosse mai manifestato nella Storia del cinema e ogni sua rara manifestazione (in assenza di YouTube, le cose le vedevi nei festival, nelle cineteche e a Fuori orario) mi portava alla fibrillazione. Pensavo che se mai avessi voluto fare il filmmaker avrei fatto quel tipo di film, così nessuno avrebbe capito davvero un cazzo ma avrebbe fatto finta di sì (ma è un’intenzione che non è mai durata più di due ore di seguito). Poi, fui dapprima risvegliato bruscamente durante una proiezione notturna alla Mostra di Venezia, quando la traduttrice simultanea di Lost! Lost! Lost! di Jonas Mekas disse un distinto «ma vaffanculo!» che ci penetrò con violenza le orecchie in cuffia, prima di abbandonare sdegnata la sua postazione dopo aver tradotto per venticinque volte di seguito il termine «Clouds» perché la voce cantilenante di Mekas continuava a ripeterlo sullo schermo. Perché l’Underground è così: fa il cazzo che vuole. La presa di distanza definitiva, seppur con affetto, avvenne una decina di anni fa, quando scrissi Storia e storie del cinema americano: il capitolo sull’underground mi diede talmente tanti problemi (di interpretazione, di agganci critici, di logica teoretica, di prassi narrativa impalpabile) che veramente mi chiesi se non fossi stato un po’ troppo entusiasta in gioventù.

Lost, Lost, Lost di Jonas Mekas

Perché Anger si lega al post precedente? Perché era un personaggio particolare, amante dell’occultismo, seguace del citato (nel post, appunto) Aleister Crowley, adoratore del demonio, al punto da tatuarsi il nome di Lucifero sul petto, quasi come Spalletti che si tatua lo scudetto del Napoli. Ma è stato soprattutto un grande artista visionario. E anche uno scrittore curioso, perché si deve a lui la più grande e divertente raccolta di pettegolezzi e scandali dell’età dell’oro del cinema americano con Hollywood Babilonia.

Ma appunto, ancora, Anger chi cazz’è veramente? Per spiegarvelo, qualora foste interessati, rièsumo una cosa che avevo scritto nella beata gioventù di cui prima per un libro collettivo che si sarebbe dovuto intitolare L’albero dei film ma che alla fine non è mai stato pubblicato, pur essendo stato pagato come se lo fosse. L’ho tagliata e ricucita perché non voglio ammorbarvi. Però, rilggendola, m’è venuto un brivido vedendo lo stile da scopa nel culo che avevo: diosanto che tronfio figlio di puttana. Quasi insopportabile. Ma tant’è. Magari guardateli i film di Anger, non siete più costretti a comprarvi il cofanetto del British Film Institute come feci io pagandolo un bel po’ di soldi, ora potete farlo gratuitamente qua. Sono molto criptici, contemporaneamente blasfemi e mistici, un po’ camp, ma tanto psichedelici e stupefacenti per gli occhi. Ne vale la pena.

Non so dove sia adesso Anger, ma so per certo dove vorrebbe essere lui. Glielo auguro. D’altronde, non tanto per il clima, ma la compagnia è sicuramente migliore.

Lucifer Rising di Kenneth Anger

L’UNDERGROUND

Fin dalle prime manifestazioni, l’intenzione del cinema underground fu quella di marcare massicciamente un’alterità. Il termine stesso derivava da una felice intuizione del critico Lewis Jacobs, il quale parlò di «underground existence» («Film Culture», n. 19, 1959) per indicare questi film sperimentali che si opponevano esplicitamente a Hollywood, mecca del lusso e dell’immagine patinata e disimpegnata. Il periodo era favorevole. In tutto il mondo c’erano fermenti analoghi, in Francia, in Gran Bretagna, in Sud America. Negli stessi Stati Uniti c’era stata la sferzata letteraria data dalla beat generation, un pugno in pieno stomaco ai benpensanti e ai puristi. Il momento era indubbiamente propizio. Si avvertiva nettamente il bisogno di legittimare e far emergere una certa concezione cinematografica sotterranea, lontana dalla conoscenza del grande pubblico e marginale rispetto ai consueti canali distributivi. Proprio dall’unione tra i beatnicks, i membri della “generazione battuta”, e le immagini era nato quel Pull my Daisy (Alfred Leslie e Robert Frank, 1959) considerato come un punto nodale nella storia del cinema underground. Il resto lo fece l’intraprendenza di Jonas Mekas, un profugo lituano, che portò dapprima alla creazione della rivista «Film Culture» (1955), diventata presto l’organo ufficiale del cinema underground, poi, nel ’60, alla fondazione del “New American Cinema Group”, un’associazione di cineasti che, in chiara opposizione all’industria hollywoodiana, tentò di operare una produzione e una distribuzione alternative costituendo una “Film Makers’ Cooperative”, un’istituzione funzionale a sostegno delle realizzazioni indipendenti. L’opposizione diventava anche geografica, New York contro Hollywood, costa orientale in opposizione a quella occidentale nel nome della libera espressione artistica. Il manifesto programmatico del gruppo lasciava trasparire una volontà quasi etica di mutare gli assetti: «In tutto il mondo il cinema ufficiale ha il fiato grosso. È moralmente corrotto, esteticamente obsoleto, tematicamente superficiale, congenitamente noioso. […] Unendoci, vogliamo mettere in chiaro che c’è una differenza fondamentale fra il nostro gruppo e organizzazioni come la United Artists. Noi non ci mettiamo insieme per fare soldi. Noi ci mettiamo insieme per fare film. […] Non vogliamo film fasulli, leccati, ammiccanti: li preferiamo aspri e scabrosi, ma vivi; non vogliamo film rosei: li vogliamo color sangue» («Film Culture», n. 22-23, 1961). In realtà la generazione di cineasti formata da Jonas Mekas, Stan Brakhage, Lionel Rogosin, Peter Emmanuel Goldman, Jack Smith, Michael Snow, Paul Sharits, non era la prima a tentare un discorso libero e individuale nell’ambito della realizzazione cinematografica. Film come il Manhatta (1921) di Paul Strand e Charles Sheeler, Lot in Sodom (1934) del duo Webber e Watson, erano già illustri esempi di una scrittura filmica che si rifaceva alle avanguardie storiche, soprattutto dadaista e surrealista, e che anticipava al contempo le tendenze di un gruppo di artisti come Maya Deren, Gregory Markopoulos, Curtis Harrington e lo stesso Anger, attivi già dall’immediato dopoguerra. Lavori come Meshes of the Afternoon (Deren, 1943), Du sang de la volupté e de la mort (Markopoulos, 1948), Picnic (Harrington, 1948) e il già citato Fireworks (Anger, 1947), svolsero indubbiamente la funzione di trait d’union tra una produzione profondamente debitrice della cultura europea e lo sperimentalismo più ardito della frazione più marginale del New American Cinema.  

KENNETH ANGER: IL CINEMA COME DEMONE

Molti spettatori e diversi addetti ai lavori identificano Kenneth Anger come l’elemento più rappresentativo del cinema underground americano, riscontrando in lui gli elementi di libertà, trasgressione e totale affrancamento dalla coercizione di qualunque sistema. Quella di Anger con il cinema è un’esistenza saldamente intrecciata: il suo occhio, la sua valenza percettiva, ha sempre avuto uno strettissimo legame con una forte volontà riproduttiva, visto che già all’età di undici anni inizia a sperimentare la sua concezione di cinema in fieri, per poi approdare, appena diciassettenne, al suo primo capolavoro, Fireworks (1947). Da quel momento la sua produzione diventa un delirio di immagini, colori, giustapposizioni e collisioni; la rappresentazione perde il suo carattere di logicità per affermare le dinamiche del pensiero e del sogno. Lo sguardo s’ipnotizza, diventa schiavo di perverse e oscure pratiche allucinatorie, la forma si frammenta, abbandona la fluidità per la significazione ideologica. Dice lo stesso Anger: «Il mio ideale era quello di un cinema “vivo” che esplorasse il dinamismo della comunicazione visiva della bellezza, della paura, della gioia. Volevo che il mio cinema personalizzato trasformasse la danza della mia interiorità in una poesia di immagini in movimento che creassero una nuova atmosfera di rivelazione spirituale (…)» (Kenneth Anger, Il linguaggio semplice dell’arte del cinema, in Paolo Bertetto, a cura di, Il grande occhio della notte, Lindau, Torino, 1992, pp. 35-6). Si avverte un che di ieratico nella sua estetica cinematografica, una specie di rito che si itera secondo dogmi ancestrali e occulti. Celebre e preponderante il suo credo in Magick, l’opera dell’occultista inglese Aleister Crowley, al punto da indurlo a pensare che l’attività di occultista sia più importante di quella di cineasta. Anger ricerca la luce, divina e cinematografica, e poco importa se divino è assimilabile a demoniaco: «Lucifero è solo l’angelo ribelle, colui che non accetta ciò che accade nel mondo» (Ibid., p. 88). Immagine di un profondo desiderio di libertà contro l’ordine costituito, qualunque esso sia, politico o produttivo. Tra marce verso il Pentagono (nel ’67) e vocazione realizzativa marginale, Anger ha sempre guardato con sospetto sia i governi, sia Hollywood (la cui atmosfera corrotta ed affascinante ha descritto con una punta di superiore ironia in due volumi intitolati Hollywood Babilonia). Trasgressione e piena indipendenza sono sempre state le convinzioni di un artista enigmatico ed estremamente complesso, che ha fatto della libera espressione cinematografica il corollario visivo alle sue personali ossessioni.

Scorpio Rising di Kenneth Anger

IL SUO CAPOLAVORO: SCORPIO RISING, OVVERO IL TESCHIO ED IL FETICCIO

Difficile tentare un ordinamento di valori e temi all’interno di un cortometraggio così ricco, simbolico, poetico e metaforico. Quello che colpisce del film a una prima visione è la sua marcata ipertrofia, il sensibile conflitto tra frammenti diversissimi tra loro e l’accumulo apparentemente caotico delle sue eleganti immagini, perché «Scorpio Rising è primariamente una struttura di idee e solo secondariamente una narrazione» (Raymond Durgnat, Private Worlds, in Jayne Pilling, Mike O’Pray, a cura di, Into the Pleasure Dome, The Films of Kenneth Anger, BFI, Londra, 1989, p. 36). Questo complicato sistema si basa su legami associativi tra le varie inquadrature messe appositamente a contatto, su elementi visivi e sonori sapientemente (e ironicamente) associati che danno la misura e le coordinate della comprensione a livello contenutistico. La ripetizione insistita di simboli sessuali e funebri permette infatti di addentrarsi in un universo ossessivo abitato da Eros e Thanatos nelle loro varianti morbosamente feticistiche e modernamente cultuali. La sessualità è sostituita dal possesso, la paura della morte viene scalzata dall’esasperazione del suo culto: Scorpio Rising è un patchwork di simboli che rimandano ai due supremi momenti. Lo stesso verbo che compone il titolo del film è un chiaro riferimento all’atto dell’erezione, mentre i simboli fallici puntellano l’assetto della pellicola e si pongono in una dimensione diacronica, come idiosincrasia nell’intera opera del regista. La massiccia torcia elettrica, i trofei (cioè l’affermazione della virilità maschile) e il cono stradale sono solo l’appendice iconografica pronunciata di un microcosmo che si ciba di immagini di Brando e Dean, di giubbotti di pelle da cui scaturiscono torsi nudi che avanzano verso l’obiettivo della macchina da presa, di passioni infantili per bambolotti motorizzati e di amore quasi patologico nei confronti del proprio veicolo, al quale ci si avvicina abbandonando lascivamente gli stivali (di pelle, naturalmente) come l’amante impaziente. L’uomo, nella contemplazione malsana della propria figura, vede riflessa sulla superficie dello specchio l’immagine della morte, presente come elemento del décor e quindi coestensiva alla dimensione della vita quotidiana. Anche ignorando l’inserimento di natura quasi inintelligibile operato da Anger (che in alcuni fotogrammi, quasi impercettibilmente, mette a contatto il ragazzo con lo scheletro), l’idea dell’ineluttabilità e ritualità della fine è più volte mostrato nel corso del film. Se la canzone “My Boyfriend’s Back”, accoppiata alle immagini appena enunciate, suggerisce il ricercato e innaturale connubio, la presenza di un articolo di giornale con la notizia di un incidente motociclistico mortale e la comparsa carnevalesca dei costumi macabri durante la festa conferiscono un significato di gioiosa e masochistica volontà di autodistruzione all’interno di una liturgia quasi tribale. Ma Scorpio Rising, nelle sue modalità realizzative, mostra anche un intento parodistico nei confronti dell’industria hollywoodiana. Il movimento sinuoso con cui la macchina da presa inquadra pezzi meccanici e motociclisti inguainati sensualmente da jeans e tessuti di pelle, è l’irriverente capovolgimento underground del fascino divistico americano: spersonalizzazione della parte meccanica in contrapposizione alla creazione artefatta del mito, fascino ostentatamente omosessuale opposto alla falsamente rassicurante immagine della mascolinità cinematografica.

[…] Scorpio Rising è anche intessuto (…) di una moltitudine di simboli e metafore il cui accumulo contribuisce a dare all’insolita narrazione un significato di tipo quasi ossessivo, come se l’idea da comunicare sostituisse il requisito della trasparenza con quello della ripetizione volta a instillare la pienezza di un concetto. L’insistenza riguarda soprattutto la totalità dei riferimenti al membro virile come immagine di estrema mascolinità, dalla sigaretta (che dai tempi di Fireworks è una specie di costante simbolica per Anger) al revolver di Gary Cooper (affermazione coartatamente maschile di un esclusivo mito americano), passando per la raffigurazione prettamente sadica del Dracula di cera, metafora della sessualità come possesso e dolore. Dal lato opposto della stessa medaglia si pongono invece le immagini che metaforizzano con modalità nemmeno troppo discrete il cammino inevitabile verso la morte, illustrato tramite il proliferare di teschi, di costumi giocosamente macabri (che sottolineano il carattere di attrazione che opera la morte), oppure con il sottile ritorno alla sigaretta fallica mostrata nell’atto della sua consunzione.

Una foto di scena di Scorpio Rising con Anger in giubbotto di pelle e senza cappuccio

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.