Da guitto a Duce, è un attimo

Da guitto a Duce, è un attimo

Naturalmente ho visto solo le prime due puntate. Quelle rilasciate da Sky il 10 gennaio. E quindi la mia è solo un’impressione. Premetto anche che sono un lettore della prima ora della pentalogia di Antonio Scurati (quattro usciti, uno uscirà), di cui ho apprezzato tantissimo sia la modalità di narrazione polifonica sia lo sfruttamento delle fonti storiche ai fini del racconto, al netto di qualche banale sbavatura editoriale, soprattutto nel primo volume (per capirci: attribuire a Carducci e non a Pascoli “La grande proletaria” oppure, per fare un altro esempio, aggiungere 5 centimetri all’altezza di Giovanni Giolitti nel giro di 40 pagine).

Ovvia quindi la curiosità per questa serie, annunciata da tempo, seppur non pubblicizzata con la stessa insistenza di Hanno ucciso l’Uomo Ragno (che è comunque divertentissima, anche se gli 883 non li ho mai tollerati musicalmente). Curiosità, non aspettativa. Volevo vedere che tipo di lettura ne avessero fatto, in che modo avessero trasposto la materia densa, spesso ripetitiva di Scurati in un insieme fluido e scorrevole che tenesse per le sette ore e otto puntate previste. Joe Wright, che dirige l’intera serie, nella sua carriera ha avuto sovente qualche eccesso estetizzante, spesso ha rincorso un’autorialità capziosa, ma è un regista capace di trasferire il senso fluido delle sue immagini all’interno di un flusso coinvolgente; ad esempio, qua è in grado di miscelare articolati piani-sequenza a un montaggio frammentatissimo dal ritmo jungle, per una commistione di stile che vivacizza e in alcuni casi esalta le varie situazioni illustrate. Fondamentale, perché la narrazione di un periodo storico così melmoso come quello del fascismo, un’epoca tutta italiana di caos politico primordiale, sotterfugi, intrighi, lassismo, compromessi, inganni e autoinganni, non può che giovarsi di una visione ampia, tendente ai limiti estremi e che eviti la consueta restituzione sempliciotta e provinciale di una produzione italiana.

M. Il figlio del secolo inquadra la Storia, oltrepassa la cronaca degli eventi come pure fa il ciclo di romanzi da cui è tratto, e si fa rappresentazione. Simbolica, iperbolica, probabilmente anche antonomastica. Il Mussolini di Marinelli, istrionico e mimetico, in realtà è un guitto d’avanspettacolo che studia per diventare grande attore: il suo è un percorso di progressiva crescita che nutrendosi delle contraddizioni politiche di una nazione lacerata crea la proporzione inversa di un’Italia minimizzata dalla sua arte drammatica. Uno one man show con il quale lo spettatore entra in immediata e paradossale sintonia. Perché il criterio della rappresentazione crea complicità. Come guardare con gli occhi dell’assassino in Halloween o in Peeping Tom (o anche in Black Christmas, tanto per ricordare Olivia Hussey, che ci ha lasciato subito dopo Natale).

Ammicca, il Duce di Marinelli e Wright. Ti parla direttamente. Parole semplici e dirette per raggiungere la vastità del popolo, come si insiste nelle prime sequenze. Per cui M ti blandisce. Tenta di esercitare quella stessa opera di seduzione che operò sull’Italia intera a suo tempo (e che ahimé, ahinoi ancora esercita a oltre cent’anni di distanza). Guarda verso la macchina da presa, M, interpella direttamente il pubblico: «a me gli occhi!», cerca di ipnotizzarlo e indurlo al suo volere, si rende simpatico (quando ripetutamente annuncia di voler uccidere Cesarino Rossi perché troppo intelligente, salvo poi ritrattare al volo con un mezzo sorriso: «scherzo!» — spoiler: non lo farà). Non siamo più nei tempi di rottura delle convenzioni, l’illusione di assistere a una storia che si regga da sé è già stata infranta da quando Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo respiro si è messo a conversare verso il posto del passeggero senza che il passeggero ci fosse (mentre tutto quello che era capitato prima era una deroga in generi ritenuti già metanarrativi per statuto, come il musical o il comico). In pratica siamo a cavallo tra cinema consapevole di se stesso e allestimento teatrale: al di là di tutte le volte in cui l’M di Marinelli è effettivamente issato su un palco a mostrare la sua faccia politica, così diversa da quella privata, la comunicazione diretta è un ripetuto a-parte con il pubblico e con i risvolti della Storia, uno strano interludio alla Eugene O’Neill che deve la sua principale fonte di ispirazione anche — sono disposto a scommetterlo, anche se di solito, come sapete, le scommesse le perdo — all’Hitler, ein Film aus Deutschland, opera fiume dai mille rivoli espressivi di Hans-Jürgen Syberberg (👇🏻).

M se ne frega, tanto per restare in tema, di ridiscutere il principio di finzione o di riflettere sui limiti del linguaggio, tutto è teatro e in questa ossessione per la rappresentazione (di se stesso per affermarsi nel tessuto della Storia) M invita lo spettatore, chiamandolo alla corresponsabilità: Scurati raccontava il passato riferendosi all’attualità (e comunque, dal 2018 a oggi, il Governo si è ancora più fascistizzato); la serie opera reciprocamente, si rivolge a dei compagni di viaggio per condividere un (lungo) percorso che storicamente è già stato condiviso, rinnegato, sentito come nostalgico e poi ripercorso. M di fatto si confida con dei sodali, indipendentemente da come la si pensi ideologicamente, perché da un punto di vista antropologico, chi (ri)porta al Governo i postfascisti ha comunque in sé, latenti, i germi del fascismo, di quei Fasci di combattimento di cui si vedono, nelle due puntate iniziali, i primi confusi e ingenui vagiti.

In questo caso, lo schermo (televisivo) che fa da filtro con il pubblico, in realtà si deve intendere come uno specchio in cui M si riflette, in cui si rivede, crogiolandosi, come attore di un dramma storico che vorrebbe essere mitopoiesi di una nazione che ambisce all’uomo forte per sentirsi compiutamente realizzata. I fascisti attuali, guitti senza talento, protestano perché la rappresentazione allestita da Joe Wright non mostra le cose buone che M ha pur fatto (i treni che arrivavano in orario, la paludi bonificate, il prestigio internazionale, le pensioni d’invalidità e altre cazzate variamente assortite — qua per le confutazioni, speriamo una volta per tutte. Ma non credo), M. Il figlio del secolo ci dice che la politica del fascismo è invece tutta finzione, non solo verso quel pubblico che cerca di irretire, ma anche nei confronti di chi lo circonda nella serie, dei personaggi accecati totalmente dal bisogno di un messia e incapaci di accorgersi che molto più impietosamente stanno assistendo alla ventennale tragedia di un uomo ridicolo.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

4 Risposte a “Da guitto a Duce, è un attimo”

  1. Come già sai, non vedo le serie, e credo che a questa magari non arriverò mai (anche perché non ho letto nulla di Scurati!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!. )-
    Del tuo scritto apprezzo come sempre l’ironia, la chiarezza espositiva, certe affermazioni controcorrente. E more solito quella passione per il cinema, che talvolta tu stesso (rin) neghi, ma che ho ben percepito sin da quando ti ho conosciuto e siamo diventati amici.
    mario m.

  2. Fumoso, oleoso, viscido, teatrale, si muove nella penombra… la recensione nn è solo ben scritta ma legge tra le righe ed esalta i concetti solo accennati.
    Come scriverlo meglio…
    Grazie!

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