Tra tutti i modi per illudersi di rimanere giovani, questo è sicuramente quello che avrei evitato volentieri. Vi sembrerò folle e paranoico, cosa che vi assicuro non sono, anzi, al contrario, sono abbastanza lucido (e cinico) per osservare tutta una serie di tic e ossessioni che mi circondano e che mi divertono molto. No, non sono pazzo, anche se mia madre ne era convinta e mi teneva sempre d’occhio pur fingendo di fare altro, perché si aspettava la strage familiare in qualunque momento. Mi rendo conto che questo incipit somiglia vagamente alla rassicurazione in prima persona del condannato a morte de Il gatto nero di Poe, anche per il fatto che non amo particolarmente gli animali. Ma proprio perché non li amo non li alleverei mai per poi cavar loro gli occhi o impiccarli, sarebbe uno sbattone che non ho nessun’intenzione di accollarmi. Quindi, state pur tranquilli.
Rimanere giovani, si diceva. C’è chi gioca a calcio fino a 46 anni, chi ha fidanzate di cinquant’anni più giovani, chi fa palestra per scongiurare gli inevitabili addominali da tavola, io, mio malgrado, ho deciso di tornare alle mie paure infantili. Il Fall out. Che all’epoca non sapevo cosa fosse, come termine non l’avevo mai sentito, anche se ne avvertivo la fattiva possibilità ogni giorno. Poi, nel corso degli anni nella mia testa è diventato un bellissimo disco di Terry Smith (che pur esisteva dal 1968), chitarrista di un fantastico e misconosciuto gruppo jazz-rock, gli If, nato come risposta inglese ai Blood, Sweat & Tears e ai Chicago ma senza neanche avvicinarsi a questi a livello di appeal commerciale. Voi 50 e rotti che mi onorate di leggere questi sproloqui non potete sapere che cosa sto dicendo, perché siete (quasi) tutti più giovani (però almeno uno di questi 50 so che capirà, anche se non me l’ha mai detto direttamente), ma sappiate che fin dall’alba degli anni Ottanta, fin da quando, cioè, i Buggles cominciarono a intonare «I heard you on my wireless back in ’52», mi svegliavo ogni cazzo di mattina con la convinzione che sarebbe stata l’ultima, perché uno dei due, o Reagan o il buon vecchio Leonid Bréžnev, famoso per aver inventato Elio e le storie tese e Miriam Leone, avrebbe potuto schiacciare un pulsante rosso e far esplodere il mondo. Ed è esattamente ciò che mi è venuto in mente in questi giorni, in cui l’amico Vladimir, quello stesso che regalò il letto orgiastico al Silvione nazionale, ha minacciato più volte di allertare il sistema di deterrenza nucleare. Così, tanto per far vedere alla Nato che lui non ce l’ha certo meno lungo.
Non è che intorno ai dieci anni fossi un così grande esperto di politica internazionale; certo, non ero neanche un ragazzino rincoglionito da Tik Tok e da Fortnite, solo dai fumetti e dal pallone, ma ― vi prego di credermi ― la tensione che si viveva giorno dopo giorno era talmente opprimente da formare quasi una cappa. Credo che uno psicologo troverebbe interessante sapere che non ho memoria di una sola giornata di sole in tutti i primi anni Ottanta, che pure ci sarà stata, magari quando al Sarrià Paolo Rossi segnò i tre gol al Brasile, visto che era pur sempre il 5 luglio, ma a memoria non ho contezza che sia accaduto. Un interessante caso di oggettivazione delle sensazioni a distanza di tempo. Oppure una proiezione di quell’inverno nucleare (l’opacità che seguirebbe a un’esplosione nucleare, dovuta alla sospensione delle particelle radioattive che bloccano la luce del sole) che sarebbe potuto avvenire da un momento all’altro e che fortunatamente, invece, non c’è stato. Sperando che nessuno di voi abbia compiuto approfonditi studi di psicologia, altrimenti si scoprirebbe la vacuità di ciò che sto dicendo, vado avanti, imperterrito.
Poiché era ancora lontana l’attuale società globale dell’immagine virale, tutto era palpabile ma sotterraneo: se ne ricorda la tensione, il volto da orso austero da una parte e da cowboy di B movie dall’altra, le dichiarazioni severe e minacciose, le ripicche olimpiche (tu boicotti Mosca? E io non vengo a Los Angeles, tiè!) e il grigiore diffuso di cui prima. Certo che se uno, allora, avesse visto la colonna lunga 60 km di mezzi militari russi pronta a fiaccare la resistenza improvvisata di Kiev o bombardare una centrale nucleare di una cittadina dalle molte zeta, avrebbe sibilato ben più del porcatroia attuale. Perché ci stai raccontando tutte queste cose, vecchio demente?, potreste giustamente obiettare in questo momento. Potrei rispondervi «perché mi va», che è un po’ la categoria ermeneutica che regge questo blog, ma in realtà tutto questo lungo preambolo (che ho scoperto molti di voi apprezzano più dei rilievi critici, e ciò non depone per niente a favore della mia attività pomeridiana) è legato al fatto che la mia memoria degli anni Ottanta dipende non solo delle sensazioni riprovate adesso ma anche da tutta una serie di film sul pericolo atomico che mi sono tornati in mente e che caratterizzarono quel periodo. Grazie a quella dimensione socio-pragmatica assunta da sempre dal cinema, per cui sembra che ci stiamo dicendo dei segreti alchemici e invece stiamo parlando solo della disposizione che hanno i film di assorbire il clima politico e sociale per rifletterlo e propagarlo a loro volta sullo schermo, in un rispecchiamento perpetuo che dà la misura di un particolare periodo storico, un discreto numero di pellicole degli anni Ottanta parlava proprio di quello, giusto per dimostrarvi che sì, dico stronzate, ma non sempre sempre. Escludendo Rocky IV, perché lo «spiezzo in due» equivaleva solo a una catastrofe estetica, non atomica, così, mal contati, sono un quindicina. Non pochi in un decennio scarso, con una concentrazione maggiore tra l’82 e l’85. Poi nell’86 c’è stato Chernobyl e tutti si sono accorti, come sarebbe stato poi per l’11 settembre, che la realtà poteva essere più disastrosa della fantasia e il nucleare poteva essere devastante anche se non veniva lanciato sotto forma di bomba.
Pochi di questi film meriterebbero una visione, oggi, forse solo un paio, però tutti, in quello stesso periodo in cui uno già si cagava quotidianamente addosso, funzionavano come un costante memento mori. Certo, non erano quei piccoli capolavori di tensione e dissuasione realizzati negli anni Sessanta. Non solo A prova di errore di Sidney Lumet, Sette giorni a maggio di John Frankenheimer o Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick, tutti curiosamente realizzati nel 1964, giusto il tempo di asciugarsi il sudore dopo la strizza al culo seguita alla crisi dei missili di Cuba, ma anche filmetti senza pretese come …e la terra prese fuoco di Val Guest (1961) oppure Il giorno dopo la fine del mondo, che Ray Milland diresse nel ’62, gioiellini low budget dall’alta resa spettacolare nella rappresentazione di un pericolo soverchiante, capace di distruggere la società americana e di ridurre a uno stato di ferinità i pochi superstiti. No, ahimè, non si trattava di questi, ma di pellicole mediocri, in grado di urlare il pericolo senza svilupparlo adeguatamente sul piano drammatico, incapaci di andare oltre l’estetica dell’esplosione per poi raccontare con modalità banalizzate le conseguenze sull’intero genere umano.
Ricordo che in terza media ci portarono al cinema Ideal, nel centro di quella stessa città del nord Italia con una vocazione industriale smarrita causa dislocazione che ormai conoscete, a vedere The Day After, il film per la tv distribuito al cinema con intenti didattici, in virtù della sua (estrema) qualità didascalica e tra i cui pochi meriti c’era l’eleganza nel non rivelare chi, tra russi e americani, avesse iniziato il conflitto. Dio che paura vedere il bagliore atomico illuminare le pianure del Kansas e poi seguire i protagonisti (tra cui il Jason Robards de La ballata di Cable Hogue, altro western su cui piango volentieri) mentre si sfaldavano progressivamente a causa delle radiazioni, con i capelli sempre più sottili e sfibrati, come le bambole vecchie, le crepe che si aprivano nei volti, le energie che si dileguavano, i corpi che stramazzavano in terra come marionette private dei fili. Guardarlo allora, senza averlo più rivisto, ha cristallizzato nel tempo la portata del trauma, perché se l’avessimo visto in tempi recenti, almeno fino a due settimane fa, probabilmente avremmo riso di quello stesso bagliore atomico che accendeva le sagome umane di un rosso intenso, facendo risaltare al loro interno uno scheletro animato primitivamente, manco fosse la Pantera rosa mentre prendeva la scossa. Oddio, non posso sapere se ― quando sarà ― poi non succeda davvero così, ma nel dubbio mi conforta che i pochissimi rimasti per potermelo rinfacciare avrebbero comunque altri cazzi più impellenti a cui pensare.
Molto meglio altre due pellicole, una russa e una inglese, segno che il pericolo non lo sentivo solo io ma era avvertito piuttosto world wide. Quell’ultimo giorno di Konstantin Lopušanskij, conosciuto anche come Lettere di un uomo morto, era l’antitesi di The Day After, totalmente privo com’era di qualunque ipotesi di effetto speciale. La bomba era già caduta e un gruppo di intellettuali (roba sovietica, non riproducibile in un film americano, neanche nella produzione indipendente) risiedeva nei sotterranei di un museo, mentre fuori le radiazioni, criminali disperati e un oppressivo controllo poliziesco rendevano più piacevole stagnare nei bassifondi come dei topi piuttosto che uscire allo scoperto. Colorato ma privo di contrasto (ogni sequenza aveva un’unica tonalità), discendente diretto dello Stalker di Tarkovskij, soffocante per la qualità della messa in scena, per l’ambientazione e per il formato stretto della pellicola, un inferno che ringrazio di non aver visto nel momento in cui fu prodotto (nell’86), altrimenti avrei pensato che l’esplosione sarebbe stata addirittura auspicabile, perché la sopravvivenza avrebbe prospettato uno stato post-apocalittico al cui confronto The Road di McCarthy e Hillcoat è una passeggiata di salute immersi nella natura.
Altrettanto scioccante è Threads – Ipotesi di sopravvivenza, film prodotto nel 1984 dalla BBC e diretto dall’insospettabile Mick Johnson (che poi divenne famoso per la commedia Pazzi a Beverly Hills e per il mellifluo Guardia del corpo con Whitney Houston e Kevin Costner). Ambientato nella Sheffield della working class, su cui negli stessi anni si era abbattuto un cataclisma ben peggiore, con la chiusura di tutte le acciaierie a seguito del progetto di privatizzazione delle fabbriche voluto dalla Thatcher, Threads presenta lo stesso impianto strutturale di The Day After (serenità quotidiana, qualche inevitabile problema personale in più, perché si sa, nel cinema hollywoodiano i problemi sono sempre di poco conto e alla fine si risolvono sempre; crisi diplomatica che s’inasprisce fino allo sganciamento del bombone; conseguenze della distruzione sulla società e sui protagonisti) ma con un’asciuttezza iperrealistica agghiacciante, più vicina a noi rispetto ai discorsi filosofici dei sopravvissuti di Quell’ultimo giorno, e immersa in uno scenario molto simile alle Cronache del dopobomba, prosciugate però da qualunque traccia di black humour rispetto a Bonvi e di qualunque speranza umanista rispetto a Philip Dick. Basterebbe guardare solo l’ultima inquadratura, che illude su una palingenesi e invece è lo stop frame di un incubo che non ha termine. In pratica, cronache di un nuovo Medioevo incastonato nelle macerie di una civiltà che progressivamente ha perso anche l’uso della comunicazione. Un disastro totale.
Fortunatamente, tutto ciò che era stato paventato negli anni Ottanta non è successo e ce la siamo sfangata con un po’ di sudore freddo su chiappe serrate, e verso la fine del decennio divenne possibile anche scherzarci lievemente sopra, come fecero i Genesis in una delle loro migliori canzoni senza Peter Gabriel, Land of Confusion, al termine del cui video si vede il pupazzo gommoso di Reagan, svegliatosi sudato marcio dopo una notte da incubo, sbagliare e premere il tasto rosso della bomba invece di quello della badante. Puff. E la speranza, che ha la forma di un augurio, è che si giunga presto anche adesso al momento in cui sarà possibile di nuovo vedere tutto in una visione prospettica, prima che tutta l’Ucraina sia rasa al suolo.
A proposito dell’Ucraina, un’ultima stupenda notazione prima di lasciarci, spero non per sempre. Sulle pagine online del Messaggero, il 28 febbraio è comparso questo paragrafo in un articolo più ampio sulla storia del paese, giusto per dare due dritte a chi non ha mai avuto modo nella sua vita di osservare una cartina dell’Europa.
Sì, tutto verissimo. Allora, l’articolo non era firmato, quindi sarà stata responsabilità del solito stagista non-pagato, talmente analfabeta da non sapere digitare una ricerca su Google. Al di là di quello, evidente, relativo a Paolo Villaggio, io di errori ne conto sette, in poco più di dieci righe (due ortografici, un paio di punteggiatura, uno logico, uno sintattico e uno relativo alla trama). Guardate se ne scovate qualcun altro, come se fosse il gioco della settimana. Disastro totale anche questo, al punto da indurmi a pensare che stiamo già scontando gli effetti delle radiazioni.
Ho scritto troppo e non tutto in modo coerente, vi prometto che ci vediamo solo più a fine mese per la solita previsione sugli Oscar. Anzi, non posso prometterlo, visti i tempi. Diciamo che lo spero.
A presto, dunque, in un modo o nell’altro.