L’ultimo libro di Jonathan Coe, Io e Mr Wilder, è un atto d’amore verso il cinema visto attraverso una delle tarde opere di uno dei più grandi registi di Hollywood. Uscito in Italia il 18 febbraio, racconta l’inatteso intreccio che si viene a creare tra la vita di una ragazza greca, Calista Frangopoulos, e l’accoppiata formata da Billy Wilder e dal suo fedele sceneggiatore, Iz Diamond, autore di tutti i film della seconda parte di carriera di Wilder, ossia da Arianna in avanti, mentre questi stanno faticosamente girando il loro penultimo film insieme, Fedora.
La relazione tra Jonathan Coe e il cinema è di lunga data, ed è evidente fin dagli inizi, quando esordì con due biografie su Humphrey Bogart e James Stewart, per poi passare – fortunatamente – al romanzo e regalare alcuni lavori indimenticabili come La famiglia Winshaw, La banda dei brocchi e soprattutto La casa del sonno. In cui, peraltro, compare in un mirabile paragrafo il tipico modus operandi di un critico (Terry, uno dei protagonisti del romanzo), impegnato a sommare una sull’altra parole e righe solo per gonfiare una recensione fondata sul nulla e intascare più soldi. Paragrafo che ho utilizzato più volte come strumento in alcuni corsi sulla critica cinematografica per far comprendere la deriva che si rischia scrivendo una recensione senza aver ben chiari i nodi del discorso da trattare o se dovesse prevalere, com’è è possibile che accada, la noia di un lavoro spesso uguale a se stesso.
Per farvi capire meglio:
437 parole. E adesso? si chiese. Riassumere la trama? (Naturalmente non c’era trama.) Parlare della recitazione? (Ma nel film gli attori non recitavano, facevano solo finta.) Affrontare i dialoghi? (Ma i dialoghi erano esattamente gli stessi dei film precedenti.) In verità la pellicola aveva appena sfiorato superficialmente la coscienza di Terry. Non appena gli era arrivata con la posta del mattino, Terry era andato con la busta imbottita nella cabina d’osservazione adiacente alla Stanza Notturna Numero Tre, dove Lorna gli aveva spiegato il funzionamento del videoregistratore. La cassetta durava in teoria 97 minuti, ma Terry non ebbe bisogno di tanto tempo per guardarla. Restò profondamente concentrato sui titoli di testa, si godette la scena d’apertura (un prolisso conflitto a fuoco che richiamò nella stanza gran parte degli altri pazienti, incuriositi da tanto frastuono), poi saltò la prima scopertura di genitali e tutte le successive scene dialogate che durassero più di trenta secondi: congratulandosi con se stesso, nel contempo, per aver visto il film proprio come ai suoi realizzatori, che avevano a cuore principalmente il mercato dell’home video, sarebbe piaciuto che lo si guardasse.
La casa del sonno, Feltrinelli, Milano, pagg. 74-75
(Anche se, ad onor del vero, sono sempre rimasto sconvolto dalla susseguente notula di pagamento allegata alla consegna dell’articolo, per un duplice motivo: 809 sterline per un articolo di 4869 parole, equivalente, da noi in Italia, a circa 30mila battute. Ma al di là del compenso inaudito ― al massimo, per pezzi particolarmente impegnativi e prestigiosi, si prende un terzo di quella cifra ― chi pubblica un articolo di 30mila battute su un film destinato all’home video, cioè un film di merda, dal momento che un articolo sulle riviste specializzate è lungo al massimo 10mila battute? Beati loro, ‘st’inglesi)
Io e Mr Wilder è totalmente intriso di cinema ma lo scopo di Coe è di utilizzarlo, il cinema, come pretesto allegorico per parlare di molto altro, di incipiente vecchiaia, di tempi che cambiano, di amore per quell’Europa abbandonata già protagonista del precedente Middle England, di memoria del passato, addirittura di Shoah e di una speranza recondita che ha l’amaro e commovente sapore dell’illusione. Coe orchestra il tutto attraverso un romanzo dalla struttura molto più compatta rispetto ai suoi altri lavori, concentrando la centralità della vicenda in un lungo flashback della stessa Calista, autrice di musica da film ormai cinquantasettenne, su una sorprendente estate del 1977, quando, appena ventenne, conobbe casualmente Wilder e Diamond e per una serie di circostanze favorevoli fu invitata a seguire le riprese di Fedora. Film che per Wilder e Diamond fu un calvario e che a Coe invece offre il destro per un racconto stratificato, che parte dalle atmosfere mortuarie di un film che è la (comunque pregevole) versione decomposta di Viale del tramonto per giungere a un’approfondita riflessione sul Novecento e sulle sue alterne vicende. Vicende che hanno in Wilder un testimone perfetto, a causa delle romanzesche peripezie che lo videro osservare con sconcerto la nascita del Nazismo per poi fuggire dalla sua folle violenza, conoscere l’America hollywoodiana dell’età dell’oro e patire il successivo e improvviso accantonamento, sostituito da quei “giovani barbuti” che secondo la vulgata avevano sovvertito le norme del cinema americano degli anni Settanta, rendendo di colpo obsoleto ciò che li aveva preceduti, con una forzatura pubblicitaria che fortunatamente nel corso del tempo è stata parzialmente ritrattata e rivista. Io e Mr Wilder è ambientato in questo preciso momento di passaggio, attorno al quale, attraverso opportuni recuperi, si dipanano un passato doloroso, un presente sdrucciolevole, la tragedia di una memoria senza alcun aggancio con una realtà oggettiva che renda finalmente possibile la pacificazione dei sensi. In questa prospettiva, Fedora e la sua complessa genesi sono perfettamente funzionali al momento di crisi personale, artistica e storica attraversato da Wilder nel corso degli anni Settanta: un film che nessuno a Hollywood finanziò perché il mercato e le modalità di rappresentazione erano cambiati, e il cinema, come dicono dolendosene i personaggi del romanzo, era ormai tutto fatto «con una macchina a mano e uno zoom», improvvisando, il più delle volte, senza ricorrere alla rigidità di una sceneggiatura. Nel personaggio di Fedora e nell’illusione di un’eterna giovinezza, Wilder rispecchia se stesso, il suo tentativo di perpetuarsi artisticamente a dispetto di un universo, intorno a lui, che sull’onda degli Scorsese, dei Coppola e soprattutto degli Spielberg, sta mutando pelle, stile e gusti del pubblico. Giovani virgulti dal grande talento, capaci di esaltare la spettacolarizzazione della violenza senza averla mai davvero vissuta, lamenta Wilder, perché ancora in fasce (Coppola, Scorsese) o addirittura non ancora nati (Spielberg) per provare cosa fosse davvero l’orrore scaturito dalla Seconda guerra mondiale.
Il nome di Spielberg, nel romanzo, rappresenta uno snodo fondamentale, perché è insieme emblema della crisi e veicolo di epifania. Spielberg è accusato da Wilder ― che ne apprezza comunque l’ingegno, superiore, secondo lui, a quello degli altri “barbuti” ― di aver banalizzato i temi del nuovo cinema hollywoodiano sull’onda dello strepitoso successo de Lo squalo, sancendo forse definitivamente il netto confine tra il cinema incentrato sulle persone, quello del passato, e quello del presente, della Nuova Hollywood, ormai schiavo unicamente degli incassi (anche se, onestamente, il cinema americano è sempre stato così, anche nel periodo classico: se era meno evidente lo si doveva soltanto al fatto che con 700 pellicole prodotte all’anno, il rischio del singolo film veniva ripartito con le altre produzioni). Spielberg, però, sedici anni dopo l’estate in cui è ambientato il romanzo di Coe, diventa l’autore di Schindler’s List, il film tratto dal libro di Thomas Keneally di cui Wilder cercò inutilmente di acquistare i diritti per poterne realizzare una sua versione. Ed è su Schindler’s List che il romanzo di Coe, tra cinema, ricerca della verità, Shoah, passato, presente e fantasmi più o meno consci mai rimossi entra in un commovente cortocircuito che gli permette di chiudere con una riflessione profonda sul valore della memoria e delle immagini che la raccontano, così come avevamo discusso un paio di post fa qui sul blog.
Non tutti sanno che Wilder, tra Sabrina, Arianna, A qualcuno piace caldo, L’appartamento, La fiamma del peccato, Viale del tramonto e quel capolavoro di cinismo mai troppo lodato che è L’asso nella manica (tutti abbondantemente citati da Coe, talvolta trasponendo intere battute di dialogo nelle dinamiche della sua narrazione), subito dopo la guerra fu colui che per conto del Governo americano visionò per primo le immagini riprese dalla truppe alleate una volta liberati i campi di sterminio. Immagini scioccanti che Wilder vide con un sentimento di irrazionale speranza, nel tentativo di scorgere tra i deportati, sopravvissuti e cadaveri scempiati che fossero, le sembianze della madre, di cui non aveva più avuto notizie dal momento della sua fuga dalla Germania (e tra l’altro è anche la speranza nutrita dall’Austerlitz dell’omonimo libro di W. G. Sebald, desideroso di vedere nelle immagini di un introvabile film sul campo di Terezín la figura della madre che lo mise in salvo bambino, obbligandolo, da adulto, a un tardivo lavoro di recupero della propria identità). Da questa angosciante immersione nelle immagini dei lager, e dopo un’accurata selezione e un paziente lavoro di montaggio, nacque un documentario di 22 minuti dal titolo Death Mills (qui, se desiderate vederlo), che per impatto sconcertante avrebbe potuto tranquillamente concorrere con Notte e nebbia di Resnais, che addirittura anticipa per qualcuna delle inquadrature utilizzate poi dal regista francese. Avrebbe. Se solo qualcuno al tempo lo avesse visto. Perché Death Mills fu vietato dall’Office of Military Government in Germany, l’ufficio governativo americano di stanza in Germania: troppo fresco il trauma del conflitto, la gente non avrebbe compreso nella giusta maniera. E Death Mills rimase inedito per un bel pezzo, dimenticato, quando invece avrebbe potuto essere un documento sconvolgente quanto e più, vista la primogenitura, rispetto ad altri esempi maggiormente noti.
Questo Rack Focus tra primo piano e sfondo, per il Wilder di Coe diventa la ragione stessa di una vita, al punto che quando il regista, ormai ottantasettenne, vedrà Schindler’s List, apprezzandolo tantissimo, ammetterà di aver solo traguardato l’azione tragica orchestrata da Spielberg davanti alla macchina da presa, per approdare invece alle figure indistinte di contorno, sempre alla ricerca di quella madre di cui non aveva più avuto notizie e che poteva sperare di ritrovare solo negli scampoli della Storia.
Una coazione a ripetere svincolata dalla ragione, incurante dell’evidente divergenza tra finzione e realtà effettiva, una voragine incolmabile che nel romanzo potrebbe rischiare di scadere in una deriva melodrammatica, se non fosse contemporaneamente così verosimile, ossessiva e intimamente lacerante.