Per non rischiare di dimenticare un regista che la Storia ha già archiviato senza tanti complimenti, è sempre utile rivedere quanto di bello ha prodotto nel momento del suo massimo fulgore, quando tutti erano convinti che uno dei veri riformatori del cinema americano degli anni Settanta fosse lui, almeno quanto lo erano Scorsese, Spielberg e anche Coppola. Ma degli ultimi tre ci riempiamo spesso la bocca (a ragione) ancor oggi. Michael Cimino, invece, complice un’ambizione smodata che lo ha condotto a voler inseguire i vertici dell’assoluto con I cancelli del cielo per cadere rovinosamente e non riemergere più, nessuno lo cita neanche per errore.
Per rinfrescarsi la memoria, allora, visto che al buon Michael piaceva il dispendio di mezzi e la spettacolarità che la tv delle piattaforme, per quanto megalomane sia lo schermo, mortifica sempre un bel po’, quale migliore occasione di andarsi a rivedere il suo autentico capolavoro, quello che ha messo d’accordo tutti, tranne Jane Fonda, che lo accusò di essere più a destra di John Wayne (cosa francamente impossibile): Il cacciatore. Io sono convinto da sempre che il suo capolavoro sia I cancelli del cielo, ma in un mondo in cui l’ambita etichetta non si nega neanche a un film lievemente sopra la media, a un romanzo con un buon intreccio o a un disco poco più che mediocre, perché non pensare che i capolavori di Cimino possano essere addirittura due?
Fatto sta che comunque Il cacciatore risiede sempre stabilmente in alcune delle classifiche più prestigiose dei più bei film di tutti i tempi (e I cancelli del cielo in quelle dei peggiori flop): per dire, nella classifica dei migliori film del British Film Institute di cui abbiamo parlato lo scorso anno di questi tempi, è il 211° film più bello della Storia. Se ascoltate me, io seccherei almeno il 70% di quei 210 che lo precedono, per cui la posizione sarebbe ancora più vantaggiosa. Ebbene, dicevamo, l’occasione di vederlo al cinema ci sarà lunedì 22, martedì 23 (in lingua originale: consigliato!) e mercoledì 24 prossimi, nello splendore di una versione completamente digitalizzata in 4K e distribuita da Lucky Red.
Perché rivederlo? Dura tre ore e tre minuti e alla fine tutti si ricordano solo della scena della roulette russa e quindi, nella fretta di questi tempi, si può considerare già visto e digerito (sì, però se chiedi quale delle tre scene della roulette russa, si comincia a impallidire e farfugliare: «ma come, non ce n’era una sola?». No. La prima, stupenda, è funzionale alla terza, lancinante e melodrammatica. La seconda si limita a illustrare un abisso). Abbandonate il vostro torpore scopofilo da very long covid, di cui sono vittima anch’io, lo ammetto (tranne che per andare allo stadio) e fate uno sforzo: film così, non ne fanno davvero più. E scusate l’afflato nostalgico, anche se io su Acca Larenzia avrei versato ettolitri di benzina per poi far cadere distrattamente un cerino. Non mi credete? Va bene, proverò a convincervi in cinque punti, così ce la sbrighiamo in fretta.
#1. Non è un film sul Vietnam. Il Vietnam è solo un pretesto. Per meglio dire, è un film su come l’idea del Vietnam ha colonizzato lo stato mentale di un’intera generazione di americani. Bello, eh? Il Vietnam occupa solo la parte centrale, nel mezzo di una struttura che in Cimino è particolare, perché interpreta a modo suo la canonica divisione in tre atti e segue dinamiche dai tempi dilatati che non fanno riferimento a nessuna scuola, tendenza, idea preconcetta. La prima parte è l’età spensierata dell’oro, la seconda, quella nel Vietnam, è l’inevitabile perdita dell’innocenza, mentre il vero inferno è la terza, quella in cui si smarrisce ogni identità e ciascun personaggio diventa un’altra persona, tentando di non soccombere e di non arrendersi di fronte all’enormità di ciò che ha vissuto.
#2. Checché ne abbiano detto tutti, non è un film fascista. Ma vi pare che io possa amare così tanto un film fascista? Non mi offendete. Tutti a fissarsi sul finale, in cui gli amici rimasti intonano un suggestivo God Bless America riuniti intorno a un tavolo per ricordare chi non c’è più. Retorico! Sciovinista! Enfatico! Ma fottetevi. Perché non fate uno sforzo di elaborazione e andate oltre i vostri preconcetti? In un film tutto basato sui confronti, tutto concentrato sul tema del doppio, della sovrapposizione e della sostituzione, perché non pensate all’unica scena di canto precedente, ma tanto precedente perché il film è molto lungo, e osservando la diversità di spirito, di espressioni, di tonalità acustiche, pur nell’identità del luogo, non ne traete un illuminante confronto tra il prima e il dopo? Vedrete che il risultato sarà assolutamente sorprendente.
#3. C’è la scena più tesa di tutto il cinema bellico, non solo del Vietnam, ma di tutte le guerre rappresentate sullo schermo. Forse la più iconica di tutti gli anni Settanta (Jack Nicholson che spacca con l’ascia la porta del bagno in cui si è rintanata Shelley Duvall è già degli Ottanta), almeno quanto la testa di cavallo del Padrino o Bob De Niro davanti allo specchio in Taxi Driver. Si tratta di un meccanismo di suspense pressoché perfetto. Provo a spiegarlo, lasciatevi servire. Un unico colpo in canna. Che però può esplodere (in realtà DEVE per forza esplodere: Čechov s’è incazzato per molto meno). Bob De Niro che ride istericamente e acuisce l’atmosfera snervante, aleggiante insieme a un’intollerabile umidità (resa magnificamente da Vilmos Zsigmond), praticamente appiccicata addosso, fastidiosissima. Dio, se è fastidiosa! Diversamente da cosa capita di solito nelle scene di suspense, qua il tempo non si dilata, si contrae e ruota tutto sull’ossessione degli ordini perentori e acuti impartiti dal vietcong. Avete presente il grido «Mau! Didi Mau!», che sta per “forza, muoviti testa di cazzo, veloce!”? Mentre vi aspettate lo sparo, condite il tutto con i sonori ceffoni che prende De Niro e con il volto deformato dal terrore di Christopher Walken, mentre tutti intorno urlano e strepitano perché vogliono lo sparo e voi invece non volete e De Niro a sua volta prega Walken di sparare, per fargli vedere chi è. Tutto si ripete in maniera assillante, soffocante, l’umidità addosso, le urla belluine e in più lo scopo paradossale di doversi salvare passando dall’eventualità del suicidio. Un delirio. Cimino: un maestro. E chi lo ha criticato per la mancanza di verosimiglianza, perché casi simili di tortura non si sono mai verificati nel Sudest asiatico, non ha capito che la roulette russa è solo la metafora della casualità illogica con cui in guerra si mietono le vittime. Uh, una stronzata esagerata? Vista la potenza indelebile della scena, chi ha avuto ragione, alla fine? Cimino non stava concretizzando la storia, “stava solo facendo del cinema”, come diceva Francis Scott Fitzgerald. E che cinema!
#4. La scena della roulette non è fine a se stessa, ma s’inquadra nel preciso disegno filosofico del film, ossia l’etica del colpo solo. Just One Shot. Motivo caratterizzante, concetto morale erroneo e foriero di mille conseguenze, esca che lega insieme due fasi differenti del racconto e illusione perduta di una mitologia della frontiera che non ha più ragione d’essere. Se non si comprendono le motivazioni ossessive del colpo solo, non si comprende tutto il resto del film. Il colpo solo è tutto e rispetto al colpo solo si sta o da una parte o dall’altra. Gli unici che rispondano alla logica tutta ciminiana per la quale i protagonisti sono superfici osmotiche che si scambiano e si sovrappongono fino ad assumere le prerogative dell’altro sono ovviamente De Niro e Walken e il loro rapporto è un’autentica sinfonia, una lunga suite che si risolve nel dramma, una condensazione di forme e simboli che la regia non fa altro che esaltare.
#5. Ok, mettiamo che non vi abbia convinto fino a questo punto. Sareste già fin troppo insensibili, per cui non dovrei neanche tentare di portarvi altri argomenti. Non ve li meritate. Tuttavia, lo farò ugualmente: lasciatevi cullare dalla bellezza spettacolare delle immagini che seguono. Cimino è stato uno dei più grandi compositori di inquadrature e di movimenti all’interno di esse, anche se il periodo in cui ha potuto mostrarlo è durato troppo poco. Osservate, anche senza impegno, l’incanto del suo sguardo, anche quando racconta eventi perdendosi nell’assoluta mancanza di sintesi o illustrando momenti gratuiti ma visivamente straordinari (penso soprattutto a questa scena).
Così ce ne sono stati davvero pochi. Peccato non se lo ricordi più nessuno.