Dio santo. Ogni volta ci tento, con le migliori intenzioni. Ma niente, vedo sempre confermati i miei preconcetti. Che sono pre- solo per il fatto che li ho da tanto tempo, mica perché siano dettati da opinioni frettolose e infondate. Vedo un film italiano e vengo sommerso dai perché. E non perché lo stia vedendo, che sarebbe già domanda apocalittica in sé, visto che non si può evitare e nemmeno si dovrebbe ambire a farlo, se si vuole avere un panorama sufficientemente ampio da permettere, poi, di fare considerazioni di questo tipo. Intendo proprio una sommersione di perché dovuta a tutta una serie di domande che assalgono sulle scelte compiute. Dalla regia, dalla sceneggiatura, dalla recitazione degli attori, dai toni adottati, dall’ambizione sfrenata di giovani registi che li porta a toccare il senso del ridicolo senza rendersene conto. Un’ammucchiata di perché. Mi sforzo di non fare lo Stanis La Rochelle della critica, vittima della facile equazione angloamericano = buono, italiano = cattivo, anche perché magari fosse così semplice, però alla fine si rischia di fare questa fine. Ovviamente, intendo il cinema italiano degli ultimi 30-40 anni, perché il Neorealismo, il periodo dell’impegno politico di Francesco Rosi ed Elio Petri, solo per fare i due nomi più illustri, la grande e irripetibile (mi raccomando: irripetibile, qualunque cosa vi dicano, per tutta una serie di motivi che sarebbe lungo tentare di ripercorrere in questa sede) stagione della Commedia all’italiana sono stati il momento in cui il cinema italiano possedeva dimensioni talmente imponenti da fungere da esempio per le altre cinematografie, che spesso arrancavano, cercando di ripercorrerlo. Ora, solo qualche eccezione. Garrone. Virzì, quando non si snatura. Diritti. Sorrentino, prima che diventasse prigioniero di suore e pecore. Martone, quando si degna di lavorare nel cinema (Teatro di guerra è ancora oggi uno dei migliori film degl’ultimi trent’anni). Amelio, Bellocchio, sebbene appartengano a un paio di generazioni precedenti, Moretti, che pur fa gruppo a sé. Dei nuovi, Andrea Segre, Carpignano, i gemelli d’Innocenzo e i fratelli Manetti, nel loro genere. E mettiamoci pure Ivano de Matteo, anche se non sempre. Sembrano tanti, ma molti dei perché sfiorano anche questi nomi, perché la tendenza è trasversale e colpisce tutto il sistema cinematografico, non solo la sua medietà.
Era da un po’ che volevo fermarmi a riflettere sul cinema italiano in questo blog. Ho anche iniziato a scrivere un pezzo, un paio di mesi fa, che poi ho cestinato perché stava prendendo una piega troppo acrimoniosa. E non era il caso. Però poi capita di vedere un film come La stanza, di Stefano Lodovichi, giovane regista già in possesso di un ottimo curriculum (al suo attivo tre lungometraggi e una quindicina di episodi di fiction) e ti chiedi ancora perché. Apparentemente un thriller, che man mano che passano i muniti si fa metafisico (senza essere il Tornatore di Una pura formalità, a sua volta attinto da Guardato a vista di Claude Miller), fino a trasformarsi in un improbabile racconto morale a causa del quale [spoiler: fermatevi se avete l’intenzione malsana di vederlo] l’aggressore penetrato in una casa affascinante quanto decadente è il figlio coetaneo (sì, coetaneo) di una coppia separata, tornato indietro dal futuro (in realtà solo dalle coscienze dei genitori) per vendicarsi dei traumi subiti a causa dell’egoismo familiare. Perché. Perché un thriller che già avrebbe (gli) altri problemi (di cui dopo) deve svoltare in questo modo sfiorando costantemente il senso del ridicolo? Perché ambire ad andare oltre se già la normale amministrazione (leggi: dinamiche di genere) ha già le sue complessità di toni, struttura e modalità di enunciazione?
Il primo problema che si nota in questi film è spesso la storia. Per ordine d’importanza e per intensità della magagna. Si dice che il problema del cinema italiano contemporaneo siano le sceneggiature. Ma in realtà, come diceva Vittorio Gassman già nel 1961, riferendosi a una questione che quindi derivava fin dalla fine del Neorealismo (che pure nelle sceneggiature non aveva il suo punto di forza) il problema era identico. In Italia non ci sono scrittori per il cinema? Non ci sono storie? Oppure è particolarmente dannoso il passaggio dalla pagina scritta alla messa in scena? Di tutto un po’, ovviamente. E la verità sta nel mezzo: ci sono pochi ottimi sceneggiatori; poche sono le storie davvero degne di essere raccontate. Se poi ci si aggiunge il difficile trasferimento dello script a registi che avrebbero anche un buon talento visivo e narrativo ma che spesso tendono ad essere colpiti dalla Sindrome di Orson Welles (il capolavoro al primo film, perché il secondo potrebbe non arrivare mai), il problema si aggrava. Non è un caso che prodotti dignitosi ma poco più che sufficienti, come Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e il recente I predatori di Pietro Castellitto, abbiano fatto inneggiare ancora una volta alla rinascita del cinema italiano, quando in realtà hanno l’esclusivo merito di presentare il loro soggetto in modo eccentrico rispetto alla media stantia degli altri film italiani. Mainetti ha atteso per tre anni di iniziare le riprese del suo secondo film, Freaks Out, ora finalmente pronto ma ancora distante dall’uscita. E di anni nel frattempo ne sono passati quasi sei; per Castellitto non giurerei in un’attesa altrettanto lunga, ma in questi casi a pensar male si fa peccato, come si sa.
Torniamo a La stanza per un attimo. Osservate neanche troppo attentamente il fotogramma qua sotto.
Cosa c’è di straniante? Tre secondi per rispondere… 1…2…3. Esatto. Non è la pelle sulle spalle a essere grinzosa, è la protesi gommosa piazzata per simulare la ferita da taglio a non essere stirata. Perché? Perché una scena dall’elevato impatto drammatico deve diventare involontariamente grottesca? Perché la postproduzione digitale corregge ogni singola ruga, piega, qualunque ombreggiatura, perfino nei selfie dei vostri smartphone, quando vi mostrate ancora imputtanati dopo una notte complicata, puntando a farvi apprezzare per le freschezza genuina del vostro risveglio, e non può cancellare le grinze ascellari del personaggio interpretato da Guido Caprino? Perché questa incuria nella costruzione dell’immagine? Perché l’occhio di Favino, con riferimento al precedente post di questo blog, è libero di vagare ne Gli anni più belli come la palla di un flipper colto da tilt senza trovare una direttrice coerente? Perché nella scena della gita a Chioggia presente nel terzo episodio del tanto acclamato (non da me) We Are Who We Are, un ciclista con t-shirt verde e cappellino ruba la scena ai protagonisti transitando davanti alla macchina da presa un’infinità di volte nel giro di soli 30 secondi come una falena impazzita? (sia chiaro: quelli che vedete qua sotto sono tre momenti differenti, non una sola ripresa in continuità, come potete osservare dalle altre comparse. Che sono le stesse, ma in posizioni diverse).
Inutile parlare della recitazione, che è un argomento particolarmente complesso che non si può certo analizzare e risolvere in uno spazio così esiguo. Per di più è fin troppo facile, particolarmente ingeneroso e ottusamente puerile guardare al passato, a giganti quali Gian Maria Volonté, Gassman, Mastroianni, Manfredi, Tognazzi, Sordi, Sofia Loren o Anna Magnani per approntare uno sterile confronto. Però un paio di domande ce le possiamo porre, pur non essendo così sicuri di giungere a valide risposte. Perché quella stessa incuria che traspare talvolta dalle immagini è lo specchio fedele di una recitazione che appare in diverse occasioni fuori registro, monocorde, inespressiva, talora non adeguatamente diretta. Perché troppe volte si scambia l’intensità espressiva con gli estremi della gamma, dal sussurro affannoso all’urlo isterico. La misura, l’adeguatezza, il controllo, queste sconosciute.
Inoltre, il cinema italiano ha un’unica lingua, il romanesco. In tutti i film italiani si parla romano, dovunque siano ambientati. Non quell’inflessione cantilenante, sempre con la cadenza giusta e la battuta pronta che s’incastrava come unica tessera possibile in quel mosaico espressivo che fece la fortuna della Commedia all’italiana, diventando una sorta di koinè codificata fatta di ritmo, vivacità e drammaticità popolare. No, ora è l’unica lingua parlata in tutta Italia. Dalle sue forme più coatte (ad un certo punto di Favolacce ho dovuto inserire i sottotitoli per comprendere qualcosa), che perlomeno, nei film ambientati tra Ostia e Fiano Romano hanno un senso, fino al semplice accento, che a quel punto può essere esportato ovunque con una disinvoltura tale da sconfinare nel paraculismo. Un esempio: Non odiare di Matteo Mancini è ambientato a Trieste, eppure la protagonista, Sara Serraiocco, parla con uno spiccato accento romano (pur non essendolo: è nata a Pescara), costringendo gli sceneggiatori, finalmente pronti a sbizzarrirsi in trovate strabilianti, a inventarsi un suo precedente trasferimento nell’estremo Nord-Est.
Altro esempio, raccapricciante: ne L’incredibile storia dell’isola delle rose, diretto da quel Sydney Sibilia che con il primo episodio di Smetto quando voglio aveva pur illuso su una possibile resurrezione di un certo modo di fare commedia, Luca Zingaretti interpreta l’ex presidente della Repubblica Giovanni Leone. Impressionante per la somiglianza. Se solo se ne stesse zitto. E invece no. Ora, chi nella memoria riesce ad andare oltre Sandro Pertini e le sue esultanze ai gol con la Germania nella finale dei mondiali di Spagna, potrebbe ricordare che personaggio fosse Giovanni Leone da Napoli, al di là dello scandalo Lockheed e delle corna con cui venne immortalato in fotografia ben prima che lo facesse un altro oscuro personaggio da Arcore. Giovanni Leone parlava come Lello Arena nello sketch di don Gennarino Parsifallo (fatevi un’idea, se avete scarsa memoria di questo fantastico paese). Eppure, incurante di qualunque mimetismo che vada al di là del trucco, Zingaretti già alla seconda battuta, dopo un forzato inizio partenopeo, torna a parlare romano, come se fosse un Francesco Totti qualunque. Perché.
Come? Pretendo il realismo in una commedia? No, mi piacerebbe soltanto che il pubblico non fosse trattato come un ingenuo, anche se spesso lo è, e che il cinema italiano riuscisse nuovamente ad uscire da quel provincialismo che lo imprigiona e che gli impedisce di comprendere che dialoghi declamati, sospiri soffiati nelle orecchie dello spettatore, mancata cura delle immagini e revisionismo linguistico sono corde costantemente appese in casa di chi ha già di per sé spiccate manie suicide.