Ieri, 26 settembre, si è svolto 31° Convegno di studi Vedere e Studiare Cinema, organizzato dalla Federazione Italiana Cineforum. Il titolo del convegno era “L’analisi rappresentata”, il tema il videosaggio, pratica in via di sempre maggiore affermazione a metà tra la critica analitica e la rappresentazione in diretta (tramite le immagini) dell’oggetto che si sta indagando (qua la presentazione della giornata). Insieme a me, rigorosamente su Zoom, Chiara Grizzaffi (Università IULM di Milano), Laura Spini (docente di montaggio in varie università inglesi), Antonio Somaini (Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3) e Cécile Chièze (Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3). Introduzione di Adriano Piccardi (direttore della rivista Cineforum), moderatore Saverio Zumbo (curatore della sezione video-saggi per il Festival di critica Adelio Ferrero di Alessandria). Quello che segue è il mio intervento, sull’autore di video-saggi Kogonada, tre anni fa approdato alla regia di fiction. Durata della lettura: 9 minuti. Se però vi guardate tutti i video di Kogonada linkati, non ne uscite più (e se fate l’errore di cliccarne solo uno, rimarrete invischiati come le mosche sulla melassa. Ma è un errore che varrebbe la pena commettere). Qua, per quelli che proprio non sanno cosa fare del loro tempo, l’intero convegno.
Un artista come Kogonada (oppure :: kogonada, come puntualizza il suo brand) è probabilmente il case study per eccellenza quando si parla di video-saggi cinematografici. A differenza degli altri nomi celebri della video-saggistica di ultima generazione come Kevin B. Lee, Jacob T. Swinney, Matt Zoller Seitz, Tony Zhou, Nelson Carvajal e Michael Tucker (insieme all’intero staff di Lessons from the Screenplay)[1], Kogonada rappresenta un esempio particolare, perché è il punto di congiunzione (possibile) tra attività critica visiva, elementi di videoarte e cinema narrativo, nel quale ha esordito nel 2017 con il suo primo lungometraggio (inedito in Italia) Columbus, a cui sta per seguire un secondo lavoro, After Yang, previsto per il 2021, con l’interpretazione di Colin Farrell. Rispetto al percorso compiuto, una sorta di Truffaut (o Godard o Rivette) 2.0 per il quale, tuttavia, il cinema è solo purezza sentimentale, mai spunto polemico. Americano di nascita sudcoreana, utilizza uno pseudonimo che lascia subito intendere la filiazione artistica (da Kôgo Noda, lo storico sceneggiatore di Ozu), accantonando il suo vero nome, mai rivelato pubblicamente, neanche come curiosità, quasi a esplicitare un’esistenza totalmente alimentata dal cinema. La storia artistica di Kogonada è molto semplice e lineare nel suo sviluppo e rappresenta un po’ il sogno di chiunque si avvicini criticamente al cinema: autore di alcuni video postati sul web dal 2011 (su Breaking Bad, Wes Anderson, Tarantino, Kubrick, Ozu, Aronofsky), attira l’attenzione di «Sight & Sound», che gli commissiona, solo due anni dopo, un video su Koreeda (The World According to Koreeda Hirokazu). È l’inizio di una collaborazione che si protrae negli anni successivi e si arricchisce di altre prestigiose partecipazioni, con il British Film Institute, la Criterion Collection e con Samsung. Ancora quattro anni e nel 2017, come detto, esordisce al cinema con Columbus, storia di un figlio che torna nella città d’origine (quella del titolo, nell’Indiana), a causa dell’imminente morte del padre, dove stringe una fugace amicizia con una ragazza del luogo appassionata di architettura. Film molto apprezzato dalla critica, premiato nei festival ma non molto dal pubblico, soprattutto al di fuori degli Stati Uniti.
Pur nella consapevolezza che le parole che seguiranno sono del tutto inappropriate per tentare di illustrare l’arte di Kogonada, che delle parole intende esplicitamente liberarsi, occorre partire dall’inizio. Nell’ambito del grande insieme di videoclip realizzati da Kogonada, è necessario infatti operare un distinguo tra l’autentico video-saggio, ossia l’analisi condotta con l’ausilio di una voce narrante che approfondisce aspetti che le immagini mostrano, e il supercut, vale a dire le clip che illustrano configurazioni ricorrenti di regia o ripetute ossessioni estetiche. Nei lavori di Kogonada, i secondi appaiono numericamente preponderanti sui primi e sono sicuramente più rappresentativi del suo modo dinamico, agile e ritmato di analizzare il cinema. Da appassionato, ancora prima che da critico. Trasuda dai suoi lavori, infatti, un sentimento nei confronti della singola immagine non limitato alla selezione e alla riproposizione, ma che esprime un carezzevole rispetto per ogni tessera utilizzata, come se il risultato finale di questi brevi montaggi ipnotici fosse una collana di perle preziose, in cui ogni singolo frammento fornisce il valore complessivo.
Il principio di elaborazione non è molto dissimile da quello dei suoi colleghi, è il risultato finale a palesare una differenza sostanziale. Dopo aver selezionato abilmente le immagini per le sue clip in funzione dell’argomento da trattare, e sentendosi in questo molto simile, per sua stessa ammissione[2], a un maestro di sushi, in virtù di un’allegoria possibile tra gli ingredienti scelti e la qualità dei tagli apportati, Kogonada lavora sull’unione e sul ritmo, sulle forme che si legano tra loro creando un flusso simile alla trance. Osservandone i lavori, si deve convenire che il risultato è già oltre la pratica del video-saggio, perché i suoi paiono territori più prossimi a quelli della videoarte. Nelle sue clip sui registi, l’azione critica è tutta nell’isolamento del particolare caratteristico, ma il risultato finale va oltre la poetica dell’autore analizzato, perché ciò che si crea è un’estetica personale che utilizza il regista per dargli una veste nuova, diversa dalle intenzioni originarie dell’autore stesso. Kogonada non spiega la loro arte, ma la usa per applicarle un filtro postmoderno. «Non sono molto interessato a realizzare qualcosa di meramente didattico. Il mio desiderio è quello di creare qualcosa di estetico e accattivante che valga per se stesso»[3].
Quest’aspetto è visibile in ogni suo supercut, dai primi, realizzati in autonomia, per arrivare a quelli creati successivamente su commissione. Fin da Breaking Bad // POV (2011), il suo primo video, Kogonada compie un’accuratissima ricerca dell’elemento da evidenziare, pratica che suppone anche un’invidiabile conoscenza enciclopedica, nella consapevolezza che già la scelta di un’immagine a scapito di un’altra pone un filtro decisivo sul piano ermeneutico rispetto all’argomento analizzato. Ovviamente, così come poi sarebbe stato per i videoclip seguenti, non si tratta di una pura giustapposizione di elementi, ma di un nuovo flusso che sfrutta l’aspetto analizzato per creare una situazione autonoma, che del cinema ha gli spunti e le forme, della critica l’applicazione sull’oggetto e del videoclip musicale possiede virtù agogiche e qualità ammalianti. Pur essendo diversi gli argomenti su cui si focalizza l’attenzione, la prassi segue alcune regole ferree che rendono immediatamente riconoscibili i supercut di Kogonada rispetto a quelli dei suoi colleghi. Le dinamiche messe in atto sono sempre simili a se stesse, indipendentemente dal fatto che l’oggetto siano le oggettive irreali di Breaking Bad, le inquadrature dall’alto o simmetriche di Wes Anderson (Wes Anderson: From Above [2011], Wes Anderson: Centered [2014]) o quelle dal basso di Tarantino (Quentin Tarantino: From Below [2011]), i punti di fuga in Kubrick (Kubrick: One-Point Perspective [2012]), il passaggio delle figure nella profondità del quadro in Ozu (Ozu: Passageways [2012]), l’attenzione sull’espressività delle mani e l’importanza metaforica delle porte in Bresson (Hands of Bresson [2014], Once There Was Everything [2017]), il veicolo drammatico rappresentato dagli occhi in Hitchcock (Eyes of Hitchcock [2014]) oppure gli specchi in Bergman (Mirrors of Bergman [2015]). In tutti questi casi, si palesa una spiccata attitudine narrativa, in grado di modulare la successione delle immagini selezionate in un cortometraggio che procede con toni incalzanti, grazie alla destrezza nell’accostamento tra un’inquadratura e l’altra. Kogonada unisce generalmente i piani per affinità tematica (ad esempio, le prospettive che si originano da un cofano d’auto nel video dedicato a Tarantino), oppure unendo piani raccordati attraverso il movimento (in Once There Was Everything, le porte che si aprono tratte da un determinato film di Bresson si richiudono nell’inquadratura successiva tratte da un titolo differente), ricorrendo alla similarità dell’azione (personaggi che rivolgono tutti la testa verso destra in Godard in Fragments [2016]), alla specularità (recto e verso dello stesso personaggio mentre percorre un corridoio in Ozu: Passageways) oppure, infine, utilizzando le stesse dominanti volumetriche (come in Kubrick // One-Point Perspective, in cui il montaggio velocissimo tra le varie inquadrature sfrutta la stessa porzione di spazio occupata dai personaggi, in modo che il pubblico percepisca sempre il medesimo asse verticale come riferimento). La percezione da videoclip musicale che si ottiene è assecondata da un commento sonoro adeguato, a volte neoclassical, a volte post rock, a volte ancora una colonna sonora fuori contesto (come quella dei Kronos Quartet per Requiem for a Dream di Aronofsky nel video dedicato alla prospettiva in Kubrick). Fa eccezione Sounds of Aronofsky (2012), nel quale gli effetti sonori del regista americano sono il fulcro dell’analisi e il pretesto per un montaggio acustico che diventa una piccola coreografia di rumori, strappi, schiocchi, ticchettii, risucchi ecc., fondati visivamente sui dettagli e sui particolari che originano quegli stessi suoni. E un’eccezione è rappresentata, a suo modo, anche da Mirrors of Bergman, la cui “narrazione” realizzata attraverso gli specchi visti nel cinema del maestro svedese è regolata dai versi della poesia Mirrors di Sylvia Plath, recitata dalla consueta voce narrante dei video di Kogonada per Criterion, Katie Honaker.
Oltre alla clip organizzata intorno a un singolo aspetto della cinematografia di un autore, Kogonada ricorre spesso al confronto tra serie visive diverse, spesso per mezzo dello split screen, la divisione dello schermo che permette la messa in parallelo degli elementi in una visione contemporanea. La divisione dello schermo per Kogonada rappresenta sempre l’emblema di una connessione possibile, un punto di contatto fra rime visive mostrate simultaneamente. In The Fox & Mr. Anderson (2014, realizzato per Criterion) la divisione in due dello schermo serve per paragonare le azioni dei personaggi a pupazzi animati di Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson con le identiche azioni compiute dai protagonisti in carne e ossa nel corso di tutti i suoi film precedenti, così da dimostrare la concezione estetica fumettistica dell’autore e l’elaborazione di uno spazio fatto per contiguità perpendicolari. In Malick // Fire & Water (2013) il doppio schermo unisce per contrasto i due elementi del titolo facendoli elidere vicendevolmente pur nella loro spettacolarità. Nothing at Stake (2020, sempre per Criterion) mette in relazione con la consueta capacità di selezione e con un montaggio precisissimo le situazioni di Roma di Alfonso Cuarón con gli altri lavori del regista, creando dei parallelismi stranianti e illuminanti, difficilmente ipotizzabili, ad esempio una composita carrellata sulle strade del quartiere di Città del Messico che dà il titolo al film paragonata a un movimento di macchina identico tratto da I figli degli uomini, pur nell’impianto completamente differente dei due film. Way of Ozu (2017) è ancora più indicativo. Partendo da una dichiarazione del maestro giapponese («Anche se i miei film sembrano essere tutti uguali, cerco sempre di esprimere qualcosa di nuovo e nutro un nuovo interesse per ogni film. Sono come un pittore che continua a dipingere la stessa rosa»), Kogonada questa volta divide lo schermo in tre riquadri per mostrare situazioni identiche che si ripetono di film in film: preparazioni di pranzi, pasti, quadri familiari, fotografie, personaggi sconfortati, reazioni simili, pianti ripetuti, treni, i consueti pillow shots marchio di fabbrica di Ozu, addirittura medesime posizioni del capo e del corpo dei personaggi che si rifrangono tra una porzione di schermo e l’altra. La corrispondenza degli elementi diventa invece autentico approfondimento analitico in quello che probabilmente, a detta di chi scrive, è il miglior lavoro video di Kogonada, What is Neorealism, realizzato per «Sight & Sound». Paragonando la versione diretta da De Sica di Stazione Termini (1953) e la copia dello stesso film approntata da David Selznick per il mercato americano, più corta di ben 17 minuti (uscita con il titolo Indiscretion of an American Wife), Kogonada mostra dettagliatamente ogni aspetto di differenza concettuale tra due modi di intendere la narrazione, quella umanista di De Sica e Zavattini, attenta anche alle figure di contorno e alle sfumature che esprimono, indulgente verso le lunghe code di montaggio che eccedono l’azione dei personaggi, disposta a mostrare quanto più possibile il respiro della vita, di contro a quella hollywoodiana, incentrata solo sui protagonisti e sulla linea narrativa principale, insofferente verso i tempi considerati morti e per questo tagliati senza alcuna remora. Ciò che emerge da questo serrato parallelo, condotto anche con gran dispiego di effetti grafici, e malgrado Stazione Termini sia un titolo già successivo al periodo più rappresentativo del Neorealismo, è «Different kind of cinema and sensibility», come recita una didascalia ribadita dalla voce narrante, una divaricazione sostanziale delle concezioni drammatiche ed espressive che si raccoglie principalmente intorno alla componente del tempo. Esistenziale per De Sica e il Neorealismo, essenziale per Selznick e Hollywood.
Per Kogonada il cinema è l’arte del tempo, come ha affermato in più occasioni. Al tempo ha anche dedicato uno dei suoi video-saggi, Linklater // On Cinema & Time (2013), riflettendo per conto di «Sight & Sound» sull’opera del regista di Houston, un autore che sul dipanarsi dei tempi ha fondato gran parte della sua filmografia. Il tempo, per Kogonada, tuttavia, è soprattutto una conquista. La sua concezione dell’immagine, come dimostrano i suoi supercut, è prima di tutto geometrica. Il principio di unione dei diversi piani si origina dalle forme e mette in relazione le superfici, i volumi e gli spazi vuoti. Solo dopo un attento ragionamento sulla geometria delle forme, attraverso le ripetizioni, i raddoppiamenti, i raccordi e le successioni speculari, la sua visione dell’immagine si trasforma in una profonda riflessione sul tempo. «Non c’è sensazione del tempo senza senso dello spazio. E dei luoghi, di conseguenza», afferma[4]. La sintesi tra questi due aspetti, successivi ma quanto mai complementari, si realizza nell’esordio come regista di fiction per Columbus (2017), località di culto per tutti gli appassionati di architettura moderna.
Per narrare le traiettorie di un anomalo incontro tra due individui separati dalla differenza d’età ma uniti dai rapporti problematici con i rispettivi genitori, Kogonada utilizza lo scenario modernista, facendo delle superfici e delle sagome architettoniche che si stagliano su uno sfondo dell’inquadratura perennemente attivo il veicolo espressivo di una trasmissione dei sentimenti altrimenti latente, costantemente accennata e mai esplicitamente rivelata. È la costruzione dello spazio a proiettare l’emotività dei protagonisti, sono i piani costruiti meticolosamente con un «equilibrio asimmetrico», così come suggerito dalle parole indicative della protagonista Casey, a fornire un’esatta fotografia esistenziale di personaggi alla ricerca di una stabile armonia che vada oltre la precarietà del momento. Per far questo, Kogonada coniuga l’enfasi sulle geometrie con la dilatazione dei tempi destinati alla loro osservazione, contemplando le forme in uno sviluppo lineare più ampio di quanto non abbia mai fatto nel rapido montaggio dei suoi video-saggi. Ma se la frenesia del video-saggio valorizzava le forme, legate tra loro per creare la consistenza di una sola immagine in continua trasformazione, la contemplazione nel tempo di Columbus permette di individuare il negativo (in senso fotografico) di quella stessa immagine per apprezzare la relazione tra i volumi, le superfici e gli spazi vuoti. Un vuoto che rende tangibile il tempo. Indicativa appare, dunque, la struttura del municipio di Columbus[5], davanti al quale i personaggi si fermano a fissare le due enormi travi accostate, immagine di una continuità spezzata e di una mancanza che rende preponderante in modo inatteso la sua paradossale presenza. «In Columbus, Jin [John Cho] alza lo sguardo verso il municipio con le due travi che non si toccano e formano uno spazio vuoto in mezzo. Questo vuoto è sempre stato lì. In effetti, è ovunque intorno a noi anche adesso. Ma sarebbe impossibile vederlo veramente se le due travi non rendessero visibile il vuoto. E lo stesso vale per il tempo»[6].
Una composizione plastica che sollecita una percezione da vaso di Rubin. Al di là di queste annotazioni, esistono notevoli elementi di continuità tra la fiction di Kogonada e la sua attività di video-saggista. Inevitabilmente, verrebbe da dire. «Penso che lavorare sui saggi visivi approfondisca il rapporto con le forme e i ritmi dei film del passato. Il ritmo e il flusso sono vitali per me»[7]. È evidente, infatti, come in Columbus (ma anche in After Yang, per ammissione dello stesso regista) tutte le ossessioni autoriali analizzate negli anni delle analisi visive siano un tema di riferimento ulteriore che si affianca alla ricerca di uno sviluppo del tempo attraverso le forme, le linee e i campi di forza. I temi a cui sono dedicati i video-saggi mostrano un preciso corredo enciclopedico che s’introduce prepotentemente anche in Columbus come cifra visiva e come retaggio di passioni traslate, dagli autori trattati alla propria concezione artistica. «Non so se sia molto diverso da ciò che influenza altri registi cinematografici. Mi capita di possedere un preciso riferimento tratto dai lavori di cui mi sono occupato e che ritengo significativi. Naturalmente, ci sono molti altri registi, film, libri e opere d’arte che hanno plasmato il mio modo di vedere le cose, il che non è sempre evidente nelle opere più brevi che ho creato, ma senza dubbio ha influenzato il mio approccio a Columbus e After Yang»[8]. Guardare Columbus è anche uno stuzzicante viaggio all’interno della formazione cinefila di Kogonada, una sorta di grande labirinto di specchi in cui si riflettono visioni personali, fantasmi più o meno consci, situazioni interamente desunte e trapiantate per essere collocate in un nuovo e articolato contesto. Il passaggio delle figure al fondo dei vicoli, le composizioni di specchi all’interno dello stesso piano, le apparenti simmetrie spezzate da un elemento profilmico o dal taglio dell’inquadratura, i malinconici piani su luoghi vuoti o sugli elementi dell’architettura modernista sono tutti momenti che indirizzano la visione lungo un canone determinato e propongono una curiosa immagine di cinema al quadrato, che si origina dalla storia dei film, è enfatizzata dalla pratica dei video-saggi e al cinema infine ritorna, sublimata.
[1] Tra questi, il solo Matt Zoller Seitz ha tentato la strada del lungometraggio di fiction con Home, nell’ormai lontano 2005. Ma è rimasto un esperimento isolato, anche a causa dello scarso successo del film. Tuttavia, il grande merito di Seitz è di aver pubblicato volumi di critica (su Wes Anderson, Oliver Stone, Mad Men) dal layout particolarmente seducente, ideato dai grafici dell’editore newyorchese Harry Abrams: un esempio mirabile per il futuro dei saggi di cinema che finora è stato quasi del tutto ignorato, soprattutto in Italia.
[2] In un’intervista al «Nashville Scene» nel marzo del 2015.
[3] Dichiarazioni rilasciate all’autore il 3 luglio 2020.
[4] Ibidem.
[5] Progettato nel 1981 da Edward Charles Bassett per conto del celebre studio di architettura Skidmore, Owings and Merrill, fondato nel 1936 con sede a Chicago.
[6] Dichiarazioni, cit.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.