
[Oggi scrivo un post serio — e anche compassato, va’. Più serio del solito. Perché, dopo aver visto una serie di film, è qualche giorno che sto pensando a una cosa che mi rifrulla in testa. Essendo diverso dalla lunga serie di cose frivole che leggete solitamente qua sopra, vi avviso, in modo che non me ne vogliate dopo: se non avete voglia di ragionamenti che paiono tirarsela un po’, ma solo in apparenza, ci vediamo al prossimo post. Senza rancore.]
Sono rimasto fermo a Nickel Boys, credo. Non che ci ripensi come a un capolavoro, ma ci ripenso, spesso. Anche perché, ripensandoci, mi sono accorto di una tendenza che ho riscontrato anche altrove. E mi si è risvegliato il trigo a lungo sopito della teoria, che alla fine è l’unica cosa che facesse di me un reiettto, ai tempi belli dell’università, perché ero l’unico tra i miei compagni a non sognare di diventare regista (in Italia, poi) e quando tutti strabiliavano (a ragione) davanti a un movimento di macchina vorticoso, io mi bloccavo a riflettere se il rapporto dialettico con lo spazio attraversato e con le figure mostrate fosse congruo. (de)Formazioni. Succede, se hai la Luna e Urano nel Leone (un mio vecchio compagno di studi, celebre poeta pop che da questa città a vocazione industriale ormai smarrita si è irradiato con successo nel resto d’Italia, dopo un seminario mi disse che la gente come me veniva studiata psicanaliticamente, perché andare a notare quelle cose era una turba, non un merito. Ci facemmo una grassa risata, ma ho sempre supposto che la parola che non gli veniva fosse autismo).
Sono rimasto a Nickel Boys anche perché nel frattempo ho notato che di volontà di soggettivare la macchina da presa ce ne sono state diverse altre, tutte con una distribuzione piuttosto complessa, come se il cinema in prima persona richiedesse al pubblico uno sforzo di condivisione identificativa che la distribuzione non vuole accollarsi. C’è da dire, ammettendolo, che per un film insistere sul POV shot, come dicono gli angloamericani, rendendola l’unica prospettiva possibile, dà sempre vita a un lavoro estremo, sperimentale, quasi avanguardistico, perché avvertito come forzato e talvolta, quando l’impegno di rendere fluida la narrazione si nota, anche innaturale. Delle perplessità su alcune mire emotive autoriali di Nickel Boys abbiamo già detto, mentre altri film usciti in questo stesso periodo smuovono altri assi, più o meno ravvicinati, e impongono una riflessione, perché più casi diversi, di solito, rappresentano se non una tendenza, perlomeno un vago orientamento.

L’orientamento di cui prima trae pretesto da una volontà soggettiva, e apparentemente la mette in pratica, ma in realtà, guardando bene, si tratta proprio del contrario, ossia di un totale disancoramento rispetto al soggetto. L’antitesi. Lavori come Presence di Steven Soderbergh, lo slasher In a Violent Nature di Chris Nash, la tasmigrazione del corpo di Samsara di Lois Patiño (premiato nel 2023 a Berlino), la visione attraverso il tempo di Here di Zemeckis e anche un documentario misconosciuto ma illuminante come Incident di Bill Morrison, candidato come short documentary agli ultimi Oscar e basato esclusivamente su telecamere di controllo e body cam della polizia, sono esempi perfetti per parlare di questo.
Tutti questi film, malgrado le apparenze, si allontanano dal soggetto che guarda quanto più fingono di aderire al suo sguardo. E l’antitesi dello sguardo soggettivo, come si accennava sopra, in questi casi non è il piano oggettivo, quello più propriamente narrativo, esterno e meno identificativo, nonostante sia da sempre una delle discrimanti per la percezione e l’immedesimazione del pubblico. Qua siamo oltre. Oltre l’ocularizzazione primaria teorizzata da François Jost ne L’Oeil-caméra (quei piani che si danno come soggettivi unicamente a causa della modalità di ripresa — come Nickel Boys, appunto) e anche oltre il punto di vista arbitrario citato in Décadrages. Peinture et cinéma da Pascal Bonitzer (ossia quelle inquadrature che non possiedono un vero e proprio fulcro, il cui sguardo e inattribuibile e appare spesso ingiustificato secondo le strette logiche narrative).

Qua siamo proprio alla negazione del soggetto, al suo smarrimento, mentre se ne lusinga l’attiva presenza nella narrazione. Prendiamo Presence di Soderbergh. Un horror eccentrico, finanche paradossale, perché si realizza un cortocircuito assolutamente atipico per il genere: la fonte stessa dell’inquietudine non arriva dall’esterno, dalle minacce possibili caratteristiche del genere, ma proprio dalle immagini che raccontano il film, perché le inquadrature fluide in perfetta continuità che seguono i personaggi per poi distaccarsene quando trovano qualcosa di diverso cui concedere la loro attenzione oppure che li attendono in un angolo della stanza con la loro presenza (per l’appunto) ossessiva appartengono a un fantasma (non è uno spoiler, lo capite dopo 30 secondi). Un fantasma che protegge la famiglia disfunzionale, in particolare la figlia più giovane, che vive all’interno della casa.
Ora io vi risparmio il twist finale, affascinante ma inaspettato perché piuttosto illogico, se non con categorie quantistiche che manco Interstellar, però quello che ci preme è notare che pur non essendo una novità (la “soggettiva” ectoplasmatica era già stata inventata da Sam Raimi ne La casa, cioè 44 anni fa), il presunto soggetto si smaterializza (per definizione), si avverte (un paio di volte i protagonisti guardano in macchina perché sentono qualcosa) e si muove meccanicamente nello spazio (per via degli obiettivi dell’iPhone utilizzato, la visione appare sempre oblunga, soprattutto negli spostamenti repentini). In alcuni casi la presenza interviene anche nel film, facendo casino o muovendo oggetti per salvare i personaggi in pericolo; volendo, un caso particolare di metalessi, ossia l’infrazione per la quale l’autore entra sul piano del racconto.
Perché sì, dietro quello sguardo persistente, pur essendo complicato definirne la natura, la sovrapposizione fra fantasma e stile adottato può suggerire metanarrativamente che sia un autore a gestire attraverso uno sguardo insistito l’intero film. E siccome come horror non può funzionare per quanto accennato in apertura, la “presenza” è il cinema stesso con le sue modalità di osservazione (d’altronde è proprio Soderbergh ad affermarlo senza false modestie, facendo dire alla medium che nel varco che si apre grazie alla “presenza” si sperimenta l’esistenza stessa di Dio – e quindi l’onniscienza narrativa).

Visto in quest’ottica, il film più vicino a Presence non è In a violent nature, come si legge quasi dappertutto (dovunque se ne rifletta soggettivamente, ovvio), solo perché sfrutta la prospettiva dello zombi maniaco omicida (affiancandolo, non sostituendone lo sguardo), ma Here di Zemeckis. Se non lo avete visto credendolo una stronzata, molto male. Un’unica inquadratura lunga una vita intera (e il film intero), fissata in un punto di un tinello (e prima della costruzione della casa nello spazio selvaggio in cui sarà poi costruita) a fornire un’unica prospettiva. In apparenza un contenitore delle varie scene viste da un punto di osservazione esterno; in realtà, sopravvivendo alle varie epoche e ai vari personaggi che quel tinello lo abitano nel corso di un centinaio d’anni, il punto di vista della casa stessa. Una sorta di genius loci che trascende ere e situazioni, personaggi e vicende vissute; uno sguardo eterno, sempre uguale a se stesso e animato diacronicamente dal tempo che passa.
Una scelta autoriale anche in questo caso, certo, ma di un autore concettuale, più da installazione museale che da regia cinematografica. Non è uno sguardo oggettivo perché limitato nello spazio e privo dei necessari rimandi al fuoricampo; non è soggettivo perché non ancorato a nessuna delle figure presenti in scena e nemmeno metafisico (ma si può leggere anche metanarrativo) perché diverso dal controllo esercitato dal fantasma di Presence. Cos’è, allora? Uno sguardo strutturale. È la veduta necessaria affinché esista una storia narrata dal film; è il punto di vista puro, senza manipolazioni prospettiche, di cui si serve il regista per fare accedere il pubblico a tale storia; è infine il mezzo con cui la casa guarda se stessa tramite l’esistenza di chi vi ha vissuto all’interno.

In a Violent Nature, invece, è sì visto dalla prospettiva dell’assassino, uno zombie uscito dalle viscere della terra risvegliato dal suo torpore decennale, ma non attraverso una condivisione soggettiva con il pubblico. La cinepresa si pone alle spalle del mostro, dietro le gambe in cammino o mostrandone la nuca, se osserva: lo sguardo è quello mediato di un videogioco, una sorta di terza persona o, meglio, per usare la corretta terminologia videoludica, l’Over the shoulder (in questo caso anche Over the legs oppure Over the nape), ossia la terza persona. Il mostro accompagna, non sostituisce: l’identificazione non è tanto con il personaggio, con il quale sarebbe solo visiva, non avendo un’anima e ambendo a nuocere personaggi inermi, ma con il tempo, vissuto nella sua concreta realtà (per raggiungere la vittima a 30 metri il mostro ci mette i 30 secondi previsti). Pare un paradosso, ma quei realistici 30 secondi impiegati per raggiungere la ragazza, malgrado siano vissuti fermi in poltrona a osservare, danno vita a un espediente esclusivamente tensivo e contraddittorio, perché ci si identifica ovviamente con la ragazza, di cui ci si augura la fuga durante il tragitto che dovrebbe portare il disgustoso carnefice a brutalizzarla. Il soggetto si ribalta nell’oggetto e crea il rifiuto della condivisione. Che è solo ottica e non può essere partecipativa.

Samsara di Lois Patiño va addirittura oltre nella dissoluzione del soggetto, immaginando un momento unico, per chi ci crede, che per definizione non può avere nessun soggetto, se non abbandonarsi a un principio metafisico, misterico, che nel cinema non ha mai avuto prima un tentativo di traduzione in immagini (se si eccettua Allucinazione perversa). E non è nemmeno corretto parlare di immagini, poiché li si dovrebbe chiamare impulsi, percezioni visive, stimoli grafici. Sensazioni. In una lunga sequenza di un quarto d’ora (praticamente un settimo dell’intero film), il film con una didascalia ammonisce il pubblico che quello che partirà sarà un viaggio lungo, invitandolo a chiudere gli occhi per accogliere la luce (che scaturirà dallo schermo). Un’altra negazione della soggettività, che si fa interiore, da vivere con gli occhi della fede, perché quel quarto d’ora che sta per partire è la metempsicosi dell’anima di una donna anziana nel Lagos che si reincarna in una capretta appena partorita a Zanzibar. Il nulla di un lungo schermo nero, poi la vitalità pulsionale di lampi, luci e colori che si sussuegono (ovviamente l’invito di Patiño non è da cogliere: bisogna guardare): il soggetto, smettendo di esistere, trasmigra e anima il buio con una vitalità presa dal cinema sperimentale americano (le visioni cosmiche di Jordan Belson, gli esercizi di John e James Whitney, il flickering di Tony Conrad) e dalla cultura buddista per rappresentare ciò che non è rappresentabile, forse neppure pensabile. E il soggetto, ancora una volta, tentando di esistere nuovamente, si smarrisce in una dimensione indisitinta.

Incident è un documento particolare e raccapricciante assemblato (più che diretto) da Bill Morrison, perché in soli 30 minuti mostra come anche eventi ritenuti oggettivi, visti da diverse prospettive in un tempo che si presume continuo, non garantiscano né l’onniscienza, né tantomeno la verità, ma si aprano alla soggettività più pericolosa, perché fraudolenta. L’uccisione da parte della polizia di Chicago di Harith Augustus, un barbiere di colore freddato perché considerato armato e pericoloso, è vista attraverso una complessa e strutturata addizione di più fonti visive presenti in strada: telecamere di sicurezza, videocamere indossate dagli agenti sul corpo, dashcam e smartphone dei curiosi fermatisi a osservare. Incident è semplicemente la prova di una disequazione paradossale: accumulare prospettive, dotarsi di un punto di vista ubiquo, a volte anche in contemporanea, con lo split screen diviso in quadranti, non garantisce l’onniscienza. Anzi, di contro, in modo ancora più contraddittorio e perfino illogico: l’oggettività non fornisce la verità perché nell’ambito della visione totalizzante proposta sul luogo del delitto il buco nero è rappresentato proprio da un eccesso di soggettività. Quello con cui il Dipartimento di polizia di Chicago, nel tentativo di placare l’indignazione dell’opinione pubblica, ha diffuso le immagini della bodycam di uno degli agenti, suggerendo che la vittima avesse preso una pistola e che quindi la legittima difesa degli agenti fosse confermata. Solo che l’inquadratura era stata modificata evidenziando un fotogramma e poi girata agli organi di stampa, che l’hanno diffusa.
Non falsa soggettiva ma soggettività falsata: il racconto non si limita alla manipolazione stilistica del pubblico, ma crea addirittura fake news per i propri scopi. Da un lato si può discutere accademicamente sullo sfasamento del soggetto; dall’altro il soggetto si disancora dal suo ruolo (la tutela dell’ordine) per legittimare pubblicamente con una testimonianza falsata il suo operato, senza tuttavia assumersene le responsabilità. La frammentazione del soggetto era già uno dei must del postmodernismo; qua si va oltre, come dicevamo, e il soggetto si frantuma perché incapace di incarnare un punto di vista identificativo che sia davvero concreto e attendibile.
