Alla ricerca dell’essenza di Napoli: Parthenope

Alla ricerca dell’essenza di Napoli: Parthenope

Il 24 ottobre esce in sala Parthenope, poi slitterà su Netflix. Qua un paio di considerazioni. Volevo parlarvi di Megalopolis, ma poi l’ho visto e m’è passata la voglia. Non che non ci sia niente da dire, solo non ho voglia. Me l’hanno fatta passare due/tre recensioni che ho letto e che si sono dimenate come anaconde per trovare quel senso che nessun altro aveva visto, perché Coppola avrebbe realizzato quel film della cui grandezza, come si suol dire in questi casi di operazioni sbagliate fatte passare per capolavori, ce ne si accorgerà fra 10 anni. Comodo: dai del coglione a chi ti legge con una promessa di rivelazione postdatata, quando nessuno si ricorderà né del film, né delle cazzate che hai scritto per difenderlo. Stringi e stringi, malgrado l’ossessione di una vita, malgrado l’odissea che ne ha caratterizzato la realizzazione, malgrado la visionarietà tanto kitsch, è il film di uno che ha perso completamente il senso della contemporaneità narrativa, convinto com’è di fornire un film futurista fatto con l’estetica degli anni Novanta. Inspiegabile. Tra i geni americani degli anni Settanta, Coppola, insieme a De Palma, è probabilmente quello invecchiato peggio. Per cui, parliamo d’altro.

Che Sorrentino ci abbia abituato alla dismisura, è un dato di fatto. Che Sorrentino abbia un universo intimo e che spesso questo universo resti aggrappato al suo interno pur illudendosi di darsi completamente al pubblico, è un altro incontestabile dato di fatto. Che poi Sorrentino abbia una qualità visiva eccezionale, che parte proprio da quell’universo intimo, da quella particolare propensione a vedere le cose attraverso un filtro tra il levigato e il mostruoso, tra luci iperrealistiche scintillanti e l’oscurità grottesca di Francisco Goya, è altrettanto incontestabile.

Parthenope è questo. È un distillato di Sorrentino, che torna ancora a Napoli e la omaggia attraverso la parabola esistenziale di una donna attraente, amata da tutti ma che poco si concede, pur dispensando a chiunque la sua attenzione. Parthenope, interpretata dalla pressoché esordiente Celeste Della Porta, è creatura immersa in sostanza metaforica, è la ovvia prosopopea (non la superba presunzione, la figura retorica) di una città che nasce dall’acqua per sedurre, per soffrire, per convivere con i fantasmi rimossi del passato e per allontanarsi inesorabilmente da se stessa, continuando a coltivare il proprio rifiuto affascinato e nostalgico.

Inutile dire che la qualità dell’immagine che Sorrentino propone è sempre di una qualità vertiginosa, grazie anche alla fotografia di Daria D’Antonio. Ci si potrebbe far cullare dalla luminosità ventilata che cattura in ogni suo singolo fotogramma per provarne un piacere ineffabile, di pura soddisfazione erotica dello sguardo. Anche in questo caso, nel quale la macchina da presa si muove meno e gli angoli di ripresa paiono meno acuti del solito. Così come è sempre sorprendente la capacità di creare dal nulla icone improvvise che sostanziano il senso di una sequenza, la caratterizzano e spesso la rendono antologica, come — e faccio un esempio tra i molti possibili — il camion che sparge sul lungomare il disinfestante contro il colera che pare un mostro dalla fattezze di ragno meccanico. In questo, Sorrentino pare il degno erede di due giganti come Bertolucci (per il gusto pieno dell’inquadratura) e Fellini (per il grottesco che si fa campionario di umanità), aggiungendo la sua urgenza ironica e un certo grado di nostalgico distacco.

MA

Parthenope non funziona del tutto. Ti lusinga e ti esalta visivamente, ma solo se non tenti di penetrarne il senso, se resti alla superficie pittorica e levigata delle cose. L’allegoria proposta è troppo ardita, praticamente ermetica e i tasselli non appaiono tutti incasellabili. L’impressione, per usare un termine in tema che ci sta proprio bene perché nella sua onomatopeicità rende perfettamente l’idea, è che tutti i vari elementi siano arravugliat‘, ingarbugliati. Nel caso, invece, non avessi capito nulla, proprio a causa del messaggio criptico e l’aggancio allegorico non fosse proprio stato nelle intenzioni di Sorrentino (e così non è), allora la storia narrata sarebbe episodica, impressionistica ed estemporanea, forse anche lacunosa. E non credo. Credo a un disegno sentito intimamente, in una relazione viscerale che è fatta di amore ma anche di rassegnata consapevolezza, che investe le gioia dell’origine ma anche il dolore della bellezza tradita, della potenzialità frustrata o della nobiltà decaduta. La grande bellezza ha sempre un retrogusto amarissimo, come se fosse impossibile senza l’inevitabile risvolto doloroso.

Nei meandri del senso, dicevamo, non si entra, ci si crogiola. La struttura è fluida, il che non è in sé un difetto, tutt’altro, ma lo è quando il risultato è profondamente disuguale al suo interno. Parthenope parte benissimo: l’idea di mostrare Napoli quando «si spoglia d’estate» è un piccolo gioiello di grazia, colori e umori incastonato nella vicenda, e l’incanto si propaga fino al momento della sofferta perdita dell’innocenza [spoiler, non leggete: il suicidio del fratello]. Poi, la galleria si espande in una serie di incontri e situazioni, di volti e presenze, a volte centrate (l’attrice napoletana interpretata da Luisa Ranieri che torna in città per criticarla; il ricco playboy), altre di gusto discutibile nelle quali si sfiora ripetutamente il kitsch (se il vescovo del Duomo non fosse Beppe Lanzetta, che in sé contiente già il seme dell’eccesso, sarebbe una sequenza davvero pacchiana), altre ancora quasi al limite dell’imbarazzo. Come il finale, con Stefania Sandrelli che con l’età* sostiene a fatica il peso di un primo piano, non completa una sola frase di senso compiuto e si lascia andare a una serie di espressioni accennate ma tutte eccedenti rispetto alla misura che richiederebbe la coerenza con cui era stato proposto fino a quel momento il personaggio. (* Sia chiaro: sono da sempre convinto che Stefania Sandrelli sia stata una tra le attrici più importanti per il cinema italiano, da Divorzio all’italiana a La prima cosa bella, passando per Il conformista e C’eravamo tanto amati)

Per di più, i dialoghi hanno un costante tono sentenzioso e dopo un po’, se ad ogni frase ti propongono un aforisma, delle due l’una: o la sceneggiatura l’ha scritta Montaigne con la collaborazione di La Rochefoucauld o alla lunga, quando di frasi solenni ne inanelli due o tre di seguito che non sono così argute e pungenti, ti rompi il cazzo. Nel dubbio io propenderei più per la seconda ipotesi, ma sono pronto a ricredermi se qualcuno mi dimostrasse la prima. Anche perché qualcuna è davvero brillante, ad esempio quando il vecchio armatore che ricorda nell’anima Achille Lauro chiede alla giovane Parthenope se, con quarant’anni di meno, lo avrebbe sposato, ottenendo come risposta «la questione è se voi mi sposereste se io avessi quarant’anni di più». Anche a Oscar Wilde capitava di inserire nelle sue raccolte di frasi qualcuna molto più fiacca delle altre, la colpa è di essere convinti che possa essere l’unico modo per far progredire la narrazione e saltellare in modo compiaciuto da una all’altra.

E poi, sempre guardando al finale, una breve considerazione: perché sforzarsi di evocare la napoletanità attraverso ardite metafore per oltre due ore di film quando sarebbe bastata l’ultima scena, quella in cui Stefania Sandrelli (Alert Spoiler!!!), tornata in città dopo quarant’anni di esilio accademico a Trento, resta meravigliata (perché segue le indicazioni del copione o per disposizione ormai naturale?) dai festeggiamenti per lo scudetto del 2023? Devo davvero pensare che Napoli, alla fine, sia sopratutto questo? Puoi aver vinto l’Oscar, puoi vivere per anni lontano, puoi illuderti di aver abbandonato il provincialismo che ti opprime, ma uno scudetto, che altrove è una felice parentesi nella vita quotidiana, a Napoli è un evento epocale, di cui si festeggiano anche i decennali, perché nel frattempo non se ne sono vinti altri e il vittimismo aleggia come il più comodo degli alibi. Perché il Palazzo è corrotto, perché il calendario ti sfavorisce o perché il monte ingaggi è per forza inferiore. Mi aspettavo solo che da un momento all’altro iniziassero a cantare a squarciagola «chi non salta è rubentino», cosa cui ho assistito di persona durante un mio soggiorno a Napoli, senza che ci fosse alcuna motivazione per intornare un coro contro. E qua non c’è metafora che tenga, criptica o ermetica che sia: si può mascherare quanto si vuole, ma l’essenza dell’identificazione totale tra squadra e città è palese e cancella tutto il resto. E forse non c’è bisogno di fare un film, ma solo di andare nei pressi del San Paolo (pardon: Maradona) in una domenica di campionato.

Accontentatevi delle immagini, stupende, come vi dicevo. Per il vero significato basta filtrare parte della pomposità con la quale sono accompagnate e far riferimento unicamente alla scena dei festeggiamenti: a furia di fare i nostalgici delle sporadiche vittorie, considerandole un aspetto fondamentale della cultura della città, alla fine sembra che Napoli sia tutta lì. Come se non ci fosse davvero nient’altro.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

11 Risposte a “Alla ricerca dell’essenza di Napoli: Parthenope”

    1. Con me si fa anche pranzo e cena, mi digerisce rumorosamente e mi espelle, se è per questo. Il problema è che l’ho amato tantissimo e poi, ad un certo punto, non l’ho più rivisto.
      La chiami pure sindrome da amante deluso.
      Ma se tacessi sul mio blog sarebbe quanto meno paradossale, non trova?
      Ad ogni modo, grazie per la sua consueta pacatezza nel commento.

  1. Torniamo a darci del Lei? Una cosa intelligente infine l’ha detta.
    Io me la immagino stroncare Coppola e magari esaltare la solita zuppa di Linklater o Anderson. Perché voi critici questo sapete fare: essere miopi.

    (e abbasso Napoli, sempre e comunque. E abbasso Sorrentillo )

    BUONA GIORNATA

    1. Non solo miopi. Anche parziali, ossessivi, tendenzialmente capziosi, permalosi e quindi poi rancorosi.
      Sono livelli diversi: si può parlare bene di un film, ma non si colloca automaticamente il regista che l’ha realizzato sopra i mostri sacri che hanno fatto la storia del cinema.
      Altrimenti dopo “Quarto potere” avremmo potuto smettere di andare al cinema.

    1. In genere, mi piace molto Sorrentino quando fa meno il SORRENTINO, per cui credo che i primi tre, “L’uomo in più” e soprattutto “Le conseguenze dell’amore” e “L’amico di famiglia”, siano fondamentali perché hanno inaugurato e poi cristallizzato un preciso stile. Per lo stesso motivo ho apprezzato “E’ stata la mano di Dio”.

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