Alien: Romulus #youtoo

Alien: Romulus #youtoo

Piccolo ed estemporaneo ritorno al passato, quando il blog era una rubrica di «Cineforum» e si occupava di frammenti di film, impressioni e sequenze da (dis)sezionare, appunto. Perché non vi avrei mai parlato di quello di cui vi sto per parlare se ad un certo punto, verso la fine di ciò che stavo vedendo, non fossi saltato sul seggiolino. Ma è successo davvero? L’ho visto o l’ho solo sognato? Fantastico! Un breve istante che mi ha risvegliato dal torpore, perché nel chiasso supereffettistico di flash e sbrang, nel costante cromatismo rossastro che vorrebbe essere un alert di tensione e nel quale invece ci si adagia, se il film te lo aspetti esattamente come lo stai vedendo, si può anche sonnecchiare. E non è che mi stesse sorprendendo granché Alien: Romulus, nuovo capitolo della saga dei mostriciattoli molesti che escono dalle viscere e si attaccano alla faccia peggio dei colleghi molesti (se sembra che la frase sia tronca è perché i due punti fanno parte del titolo del film, non della frase). La prima mezz’ora mi ha dato proprio l’impressione del classico racconto di fantascienza del neòfita (benché di talento) che si attiene al compitino desunto dal manuale del perfetto sci-fi teller: in ordine di comparizione, smarrimento di default dei personaggi, casualità nell’essere investiti della missione, conflittualità preliminari che saranno assorbite e superate, serie di attività inutili all’interno dell’astronave in modo da rendere evidente il mood fantascientifico. Fino a quando arriva il tanto atteso mostro. E da lì in avanti [spoiler: è per questo che ne parlo con venti giorni di ritardo dall’uscita. Ma che necessità di riservatezza ci sarebbe di fronte a a uno svolgimento così prevedibile?] è la solita Alien Tendence: il mostro che schizza fuori quando meno te lo aspetti, alcuni personaggi traforati, altri che subiscono una gastroscopia con tanto di ovvio versamento pleurico, sezioni dell’astronave che diventano trappole a tenuta stagna mentre il mostro fa capolino. Tutto come da copione. E di copione in copione, che si susseguono uno dietro l’altro fino a sembrare clonati (abbiamo avuto anche questo, nella saga: Alien – La clonazione è il titolo italiano di Alien Resurrection, episodio firmato da Jean-Pierre Jeunet nel 1997).

E allora, mentre mi avviavo — anche con impazienza, devo ammettere, perché sto leggendo un libro stupendo — verso la fine, avendo più o meno in mente come sarebbe finito, chi e come sarebbe sopravvissuto e perché, è accaduto quello che non mi sarei mai aspettato. Siamo sempre in zona spoiler, attenzione! Ad un certo punto, appena terminata una delle minacce che si rincorrono senza sosta, Cailee Spaeny, fucile in braccio, si sposta circospetta lungo uno dei corridoi della nave spaziale per vedere cosa succede al di là di un macchinario, una consolle, un trumò ipertecnologico, non so, che comunque le sottrae la vista. Poco prima abbiamo visto un’ultima terrificante trasformazione dello xenomorfo, che da specie di razza con tentacoli si è innalzata, stiracchiata, sgranchita con un sinistro stridere di articolazioni e si è trasformata in un essere antropomorfo molto simile all’Eddie robotico della copertina di Somewhere in Time degli Iron Maiden.

Detto individuo, già abominevole di per sé se si esula dalla copertina dell’album (che se ricordo bene è anche l’ultimo degli Iron Maiden che abbia acquistato, nel 1986), in un’astronave in cui i sopravvissuti sono la Cailee Spaeny di cui prima, suo fratello androide di colore (era dai tempi dell’alieno di John Sayles in Fratello da un altro pianeta che non si vedeva un simbolo di questo tipo) e Isabela Merced, per di più incinta, data per morta e invece ancora gravemente ferita, è sicuramente una presenza raccapricciante, disgustosa ed estremamente pericolosa, ovviamente prossima a nuocere moltissimo. E infatti si avvicina subito con fare lascivo a Isabela Merced, tutto unto e pieno di umori com’è, e incombe con una lingua prensile che pare una pianta carnivora su una creatura pressoché inerme.

Cailee Spaeny, quatta quatta, sente che qualcosa non va (ma dài?), si muove con cautela e si avvicina al posto dove ha lasciato Isabela Merced. La cinepresa si aggancia al suo sguardo, è una questione di identificazione, lo deve fare per forza, non può mostrare tutto e subito se no brucerebbe la tensione, deve creare l’attesa e svelare progressivamente, ammantandosi immancabilmente di mistero. Intanto, il fastidio che si sente e a cui non si riesce a dare una forma, è anche a causa di una sirena che stride senza avere nessuna intenzione di smettere. La tensione si accumula e sta per esplodere.

Cailee Spaeny, si avvicina in silenzio, alza la testa e…vede questo. Questo!

Non la sta mangiando, non le sta trasferendo la lingua a mo’ di periscopio nello stomaco: se la sta ingroppando! È un’inquadratura di un paio di secondi, quasi un lampo, si vede e poi non si vede più, si torna ai piani più ravvicinati. Adesso non è che dovete pensare che io sia un maniaco o che veda cose per via di carenze individuali, anche se il critico, come dicevamo un annetto e mezzo fa e come insegna Jean Douchet, è critico solo se vede una vagina nella borsa di Marnie (è una specie di test di Rorschach). Vero che le ragazze della terra sono facili, come ci avevano detto alla fine degli anni Ottanta Julien Temple e Jeff Goldblum, ma qua si esagera. Vero anche che già il primo Alien era un’enorme allegoria sessuale, con il mostro dalla testa fallica, le forzature orali e una bocca dentata che citava indirettamente l’Osteria numero venti, come notò Amy Taubin (che non conosceva l’osteria ma che sui simboli la sapeva lunga). Ma era tutto un’allusione, però. Nel 2024 l’alieno della Z Generation non morde, non mangia, non disintegra e non baccella: stupra direttamente. Lo xeromorfo si antropomorfizza e diventa un predatore sessuale old style che pratica la posizione del missionario.

Non so se sia un passaggio di stato della fantascienza, però è il piccolo contributo che la saga di Alien fornisce a una tendenza seguita al #metoo e che, «come voi ben sapete», per dirla allo stesso modo di Totò Peppino e la Malafemmina riguardo alla grande morìa delle vacche, ha dapprima visto la levata di scudi delle star contro il sistema patriarcale dei produttori e poi realizzare una lunga scia di film che riprendeva la protesta stigmatizzandone i motivi scatenanti e denunciando una disparità che ha sempre avuto l’amaro sapore della prevaricazione.

E così, dopo (in ordine sparso ma non troppo) Midsommar, Doctor Sleep, Light of My Life, Piccole donne, Una donna promettente, The Invisible Man, Bombshell, Shirley, The Assistant, Mai raramente a volte sempre, The Wife – Vivere nell’ombra, L’apparenza delle cose, Il ballo delle pazze, The Last Duel, Benedetta, il capitolo 4 de La persona peggiore del mondo: “il sesso orale nell’era del #metoo”, Fresh, Men, La ragazza più fortunata del mondo, Barbarian, Anche io, A Wounded Fawn, The First Omen, Blink Twice, Love Lies Bleeding (che sta per uscire) e, fuori dagli Stati Uniti, Un amore sopra le righe, La notte del 12, L’accusa, Poor Things! — in Italia — Un altro domani, Mia, Fortunata, La vita possibile (uscito qualche mese prima della comparsa del movimento), Io e il Secco, senza contare serie tv come The Handmaid’s Tale, Unbelievable oThe Loudest Voice, arriva l’ossimoro dell’alieno retaggio del machismo che non uccide ma punta a possedere, incurante del mancato consenso della vittima (non che le vittime dei primi Alien fossero consenzienti, eh!, ma almeno non venivano abusate nell’intimità. Come dire, meglio uno stomaco traforato che —).

Anche se fornito come accenno, si tratta di un nuovo aspetto, mai sondato prima, della fantascienza sociologica, di quel filone cioé che parla sotto forma di metafora delle paure del presente. Non solo pericoli nucleari, virus sterminanti o perdita dell’identità in società ipertecnologizzate, ma anche l’alieno allegoria di una parte della collettività che punta ad affermare la sua protervia attraverso la violenza di genere.

Occhio, perché quella cosa ritta che vedrete d’ora in avanti nel marziano non è un’antenna.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.