1917. L’epopea One shot di Sam Mendes

1917. L’epopea One shot di Sam Mendes

Prendete una giornata come il 6 aprile 1917, in un breve momento di stasi, mentre due caporali inglesi stanno riposando e intorno a loro è tutto calmo e non pare proprio che a pochi chilometri da lì si stia scatenando l’inferno, un inferno che va avanti da tre anni e che in quello stesso giorno ha uno dei suoi momenti decisivi perché gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra alla Germania, ancora tanto incazzati per quello che gli unni hanno fatto a 123 loro concittadini sul Lusitania, e questi due caporali, in quel momento ignari, vincono l’incarico di dover raggiungere una divisione acquartierata a diverse miglia di distanza per avvisarla di non attaccare, perché i perfidi prussiani hanno solo finto di ritirarsi mentre invece aspettano l’attacco per compiere una strage contro quella stessa divisione in cui c’è anche il fratello maggiore di uno dei due caporali incaricati, i quali dovranno lottare contro il tempo e quindi partono, di corsa, evitando soldati fermi nella solita attesa logorante all’interno della trincea, perché l’impresa che stanno per iniziare è il classico viaggio dell’eroe di cui ci hanno parlato Campbell e poi Vogler e su cui molti altri hanno teorizzato, annoiandoci a morte, perché alla fine sortiscono lo stesso effetto funzionale di Deleuze, citato sempre e soltanto per legittimare qualunque delirio, ma andiamo oltre perché i due caporali si avviano verso la terra di nessuno, soltanto loro e la macchina da presa di Roger Deakins, che prima di vincere l’Oscar per Blade Runner 2049 era sbertucciato come magnifico perdente ma quest’anno, vedrete, vincerà di nuovo, e insieme si lanciano in un pirotecnico tour de force che al confronto l’impresa dei due caporali nel film diventa, visto che siamo in Francia, un’autentica Partie de campagne, con le riprese girate in fluida continuità, apparentemente in un unico piano sequenza, in realtà con qualche taglio occultato à la Hitchcock di Nodo alla gola e un solo stacco evidente, ascritto da qualcuno dei commentatori stranieri a un’incapacità di Sam Mendes e della sceneggiatrice Krysty Wilson-Cairns di connettersi con l’espressività fiammeggiante della notte, in realtà autentica cesura per iniziare una nuova fase della narrazione, in cui l’incubo diventa concreto, tangibile, giungendo a modellare anche le caratteristiche dello scenario, di cui si servono sempre la regia e l’organizzazione delle singole inquadrature per nascondere, celare, ritardare l’effetto di una minaccia incombente, pronta a materializzarsi attraverso una rivelazione sempre improvvisa, sfruttando nella maggior parte dei casi un movimento rotatorio che collega la visione e la presa di coscienza del personaggio a quella dello spettatore, come se fosse un tragico videogioco, e utilizzando magistralmente il fuoricampo, facendolo entrare in un rapporto di tensione continua che sa tanto di si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, destino comune a ogni soldato, non solo della Triplice intesa, anche se per noi, con l’eccezione del Milestone di All’Ovest niente di nuovo e del Pabst di Westfront, è sempre stata quella la prospettiva privilegiata, ma destino comune proprio perché ogni spostamento del piano di ripresa può dischiudere lo spazio per un colpo di fucile in pieno petto o per una pugnalata inferta a tradimento, cogliendo così il pubblico di sorpresa, perché se è vero che la suspense regola stabilmente vicende di questo tipo, è però l’inatteso colpo di scena che provoca nello spettatore quel sussulto paragonabile a un colpo a bruciapelo in campo aperto, mentre la macchina da presa continua il suo incessante movimento, passando le linee, le buche, i tranelli, sopravanzando corpi ― esangui e violacei, per la prima volta ― gettati in terra come brandelli di muro, tuffandosi in un fiume e precipitando da una cascata, sempre a ridosso dei personaggi, del personaggio, di quell’eroica figura che corre contro il tempo per affrontare quei tempi disfatti e il dubbio, alla fine, un po’ ti assale, che quello che hai visto, per quanto emozionante e mozzafiato, sia soprattutto un titanico esercizio di stile realizzato per stupire e porre l’accento più sul come che sul cosa e per farti chiedere perché, e così, allo stesso modo, ma certamente in forma più sterile e sicuramente meno stupefacente, questo commento sul film si è risolto, quasi di conseguenza, in un’unica e interminabile frase, senza punti, con le virgole messe per arginare ritmicamente lo sproloquio e fottendosene dei criteri SEO, non tanto per ribellione contro i principî di uniformità del web, ma proprio perché in guerra non si guarda in faccia a nessuno, neanche a voi che siete arrivati in affanno alla fine di tutto questo senza aver capito molto di più del film di cui avete letto, per il quale è necessario solo un consiglio spassionato: guardatelo, ne vale veramente la pena.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

2 Risposte a “1917. L’epopea One shot di Sam Mendes”

  1. Grande idea quella del “piano-recensione”!?
    E sì, ne vale veramente la pena.
    Io voglio credere che non sia un esercizio di stile, sebbene tutto possa farlo pensare, ma soltanto una scelta per rincorrere la chimera della totale immersione dello spettatore, che forse in un war movie non aveva mai raggiunto questi livelli

    1. Da un punto di vista “immersivo”, Dunkirk aveva operato dichiaratamente su quel versante. Poiché era privo di personaggi cui identificarsi direttamente, immerso nell’ampia spazialità della spiaggia grazie all’estetica Imax o sullo stretto pontile nella speranza/attesa di essere imbarcati, la tensione diventava corporea, totalmente partecipativa.
      1917 presenta un principio opposto: la tensione è dinamica e cognitiva, sempre frutto di uno svelamento improvviso, di uno snodo narrativo volto al peggioramento. In Dunkirk c’è lenta costruzione, complice anche la scala Shepard costruita da Hans Zimmer nell’accompagnamento musicale; qua c’è totale sorpresa, rivelazione improvvisa.
      ciao Vincenzo, grazie del commento!

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