Questo incommentabile 2020 sta finalmente finendo, puozz’ jettà o’ sang‘, come diceva mia mamma quando si sentiva in vena particolarmente lirica. E l’anno che sta arrivando, tra un anno passerà e
io (non) mi sto preparando, è questa la novità. Compilare classifiche quest’anno è esercizio più sterile degli anni scorsi. La classifica che ho stilato qualche giorno fa per «Cineforum» aveva come requisito la distribuzione italiana, ma mai come quest’anno tale criterio si è dimostrato di scarsa aderenza alla realtà effettiva, poiché una reale e consueta distribuzione è avvenuta solo per i primi due mesi dell’anno, per poi fare capolino a fine agosto dando la possibilità di vedere Tenet. Questo dopo la stagione monca delle arene estive, in cui l’astinenza era talmente febbrile da obbligare gli organizzatori delle anteprime a doppie proiezioni di film che di solito, in condizioni normali, un pubblico ragionevole avrebbe affrontato con una distratta scrollata di spalle. Come diceva un mio amico, vecchio saggio, parlando tuttavia di altro, “in tempo di guerra, ogni buco è trincea”. In questa situazione liquida tendente più al liquame che alla consueta metafora di fluidità, molte pellicole tra quelle annunciate sono state rimandate a data da destinarsi, impoverendo ulteriormente un cartellone mai così esangue. Per cui, la classifica che seguirà se ne fregherà totalmente della distribuzione italiana (solo due dei dieci film citati sono stati visti in sala), per abbracciare tutto quello che è stato possibile intercettare, non solo sui siti di video streaming italiani. L’unica discriminante è che siano lavori realizzati o circolati nell’arco di questo mefitico anno. Dovunque.
1. Diamanti grezzi di Benny e Josh Safdie
Sono giorni che mi chiedo se sarebbe stato ugualmente il film dell’anno senza il lockdown. Non lo saprò mai. Fatto sta che lo è. Perché mio nonno Giacomino non sarebbe stato un flipper neanche con una pallina in più. Troppo stress. Lo stesso stress sprigionato dalle immagini dei due golden boys americani, al loro film più compiuto dopo la grande prova di avvicinamento Good Time. I due virgulti soffocano deliberatamente l’immagine con un montaggio fibrillante, in un digitale perennemente screziato al neon e sfruttando l’interpretazione MAIUSCOLA di Adam Sandler, forse mai così a suo agio nel ruolo dell’inetto privo della concezione di limite, direttamente derivato dalla tradizione letteraria ebraico-americana di Malamud, Roth e soprattutto Bellow (i cui romanzi dovrebbero essere letti almeno una volta ogni tre/quattro mesi per osservare la vita nel modo giusto). Derivativo, sì, forse, eppure così unico, così repellente e anche così tanto intimo.
2. 1917 di Sam Mendes
Quelli più raffinati vi diranno che è un film posticcio, freddo, troppo preoccupato della tecnica per essere anche davvero coinvolgente. Balle! Non appena la macchina da presa di Mendes e Roger Deakins si mette in movimento (per non fermarsi più, tra l’altro) il pubblico entra in un tunnel che attraversa una terra di nessuno fatta di vero cinema e di tutte le illusioni, i pericoli, le visioni e i Last Second Rescue che si riescano a immaginare. Se un discorso teorico si può (e si dovrebbe) fare è sulla portata dell’identificazione dello spettatore, non sulla sua qualità, così diversa, così oculare e mai sensoriale. Ma questi sono discorsi noiosi che interessano solo noi onanisti. Godetevelo, voi che non lo siete.
3. La ragazza d’autunno di Kantemir Balagov
La sofferenza e lo smarrimento del secondo dopoguerra di due ragazze sovietiche si fa tragedia. Un lavoro straordinario sulle scenografie e sulla pastosità dei colori, spaziando dal ruggine al verde intenso e acidulo. Un cinema che lavora sulle sensazioni e sulla densità tattile. Si guarda ma si potrebbe toccare. Un mélo reso saturo dalla follia sprigionata in un universo senza più alcun riferimento. Balagov è un talento da tenere d’occhio. E già che ci siete, guardate anche Tesnota, il suo primo lungometraggio, del 2017.
4. Mank di David Fincher
Sfatiamo il mito: Herman Mankiewicz era un brillante mestierante dalla condotta piuttosto reprensibile, non lo sceneggiatore geniale ritratto nel film, alla cui statura contribuisce anche l’interpretazione immersiva di Gary Oldman, che nei personaggi sconquassati ci sguazza. Il merito della riuscita della sceneggiatura di Quarto potere fu soprattutto delle rielaborazioni di Welles, che è il vero responsabile della struttura basata sui flashback con i vari punti di vista sul personaggio di Charles Foster Kane, mentre di Mankiewicz è la trovata di Rosebud, altro punto fondamentale per la riuscita di quel capolavoro assoluto. Ma Mank è Hollywood in overlapping, che cita se stessa e avanza specchiandosi. Per chi ama il cinema classico è uno spasso, uno stupefacente labirinto da luna park, per chi non conosce tutti i riferimenti che infarciscono il film è comunque uno strabiliante esempio di perfetta regia. Grazie arca’, è Fincher.
5. La vita nascosta – Hidden Life di Terrence Malick
Il solito Malick. Ma non il solito di Knight of Cups o To The Wonder, l’altro, quello panteista, pacifista, trascendentalista, capace di raccontare la bellezza di un’anima osservando il frusciare dei fili d’erba. E qua l’anima bella è quella di un austriaco obiettore di coscienza che si rifiuta di combattere per i Nazisti nella Seconda guerra mondiale. E già non sarebbe poco, tutt’altro. Malick racconta lo sviluppo della sua idea suicida in quasi tre ore, ma di quella qualità alla The Tree of Life che ti fa rimpiangere non ce ne sia ancora un’altra.
6. I miserabili di Ladj Ly
Film di sbirraglia e banlieue, un sottogenere a metà tra il crime e l’analisi sociologica che solo in Francia può esistere. Azione, tensione e apprensione, tra Victor Hugo e la modernità, che in realtà così moderna per i diritti degli immigrati non è mai, condotto con una prospettiva d’insieme che sa di ampia collettività ma senza accanirsi sulla polizia, pur sottolineandone i limiti. È l’immagine perfetta di un conflitto perenne fra Stato e realtà che non approda mai a una soluzione definitiva, ma persegue un’eterna e convulsa sospensione, come sottolinea l’ultima fantastica inquadratura.
7. Sorry we missed you di Ken Loach
Come per Malick: il solito Loach. Questa volta il suo trotskismo corre in difesa dei diritti dei corrieri (di Amazon, ma non solo) e, in attesa che lui e Paul Laverty mettano mano a una sceneggiatura anche sui delivery man di Glovo e Just Eat, questo è l’ultimo capitolo di un inesausto campionario di nefandezze ai danni della working class. Arrabbiato e straziante, come solo il Loach migliore sa essere. Quando pochi giorni dopo m’è arrivato un pacco con Amazon, stavo quasi per abbracciare il corriere, ma mi sono trattenuto per non fargli temere un’aggressione sessuale.
8. Le strade del male di Antonio Campos
Bistrattato dalla critica, è invece un gran bel film, basato su una struttura energica e ritmata, in cui gli eventi si succedono, si ripetono e si annullano giocando sulle strutture elastiche del tempo. È narrazione popolare nel senso buono del termine, ossia affidata quasi esclusivamente alla scansione dei singoli eventi e all’epifania sorprendente dei colpi di scena. Si respira aria di Southern Gothic, mentre si intravedono i fantasmi di Flannery O’Connor, Carson McCullers e William Faulkner, sia sempre benedetto il suo spirito (nel senso etilico).
9. First Cow di Kelly Reichardt
Kelly Reichardt significa sempre l’assunzione del punto di vista che non ti aspetti. Qua racconta della prima mucca comparsa in Oregon, in un ritorno al passato storico che aveva dato frutti sorprendenti già in Meek’s Cutoff, western declinato al femminile. Questa è una storia di frontiera prima che la Frontiera si aprisse, ed è una riflessione condotta con un’armonia delle immagini che pare avere i contorni di una fiaba, anche se racconta le origini dell’impresa in America e le basi truffaldine del capitalismo. Lo fa con il solito stile ellittico della Reichardt, che dice molto di più di quanto non mostri. È un merito ed è una grazia insolita per il cinema contemporaneo.
10. Jallikattu di Lijo Jose Pellissery
Un film delirante e divertentissimo: un intero paese indiano si mette all’inseguimento di un bufalo fuggito per evitare la macellazione. Un’invenzione visiva e drammatica dietro l’altra e un inizio folgorante, un vero esempio di montaggio agogico, come dicono quelli che la sanno lunghissima, non molto lontano dai migliori esempi mai visti, tipo il prologo di Amami stanotte, Delicatessen o la prima scena di Baby Driver. Come dicono i francesi, une vraie jouissance, folle e coinvolgente.
Chiudo con una segnalazione, una sorta di bonus o di jolly che avrei voluto inserire in una qualunque posizione tra il sesto e il decimo posto ma non sapevo proprio chi eliminare. The Assistant è la sorprendente opera prima di Kitty Green, incentrata su un’impiegata che lavora in una grande compagnia di produzione cinematografica, ricalcata sulla Miramax ai tempi di Harvey Weinstein. L’impiegata è interpretata da Julia Garner, perfetta nell’incarnare i mezzi toni della donna tanto abile professionalmente quanto timorosa di turbare gli equilibri in un ambiente rigidamente maschilista, nel quale il potere è un’entità astratta ma fortissima, che si vede esclusivamente da lontano, sfocata, soltanto evocata ma metafisicamente temibile per le conseguenze che può provocare. Un film dalle cadenze implose per l’impotenza frustrante che esprime, tutto giocato sui silenzi e sugli sguardi che tratteggiano una situazione marcia senza avere la possibilità di affrontarla adeguatamente.
Una citazione anche per Gli anni più belli di Gabriele Muccino. Una sorta di rifacimento di quell’immenso capolavoro della commedia all’italiana che fu C’eravamo tanto amati, ricalcato nell’attualizzazione dei personaggi, nella struttura, negli eventi e nelle situazioni. Al di là del peccato di lesa maestà, è un film scritto male e diretto pessimamente. Tutti i protagonisti, che pure dovrebbero essere tra gli attori migliori del pur asfittico panorama nazionale (Favino, Santamaria e Kim Rossi Stuart), sembrano dei rimbambiti che recitano continuamente fuori giri, cercando di brillare per espressività ma sbagliando costantemente i toni. Mai visto Favino con uno sguardo così smarrito e inespressivo subito dopo aver recitato una battuta come in questo film. È uscito in sala il 13 febbraio, subito dopo è scattato il lockdown. Come reazione. E se questo è stato indubbiamente un anno di merda, Gli anni più belli è sicuramente il lavoro più rappresentativo dell’anno, se non fosse così stupido da poter essere, addirittura, il peggior film italiano del decennio.
Diverse ispirazioni per i recuperi di fine anno, in fretta e furia che il 2020 volge al termine (nonostante il maggior tempo a disposizione per i vari lockdown e il numero limitato di film, ancora una volta mi sono ridotto a fare le corse)…
per ora devo dire che condivido tante cose, tipo Diamanti grezzi (scontato), 1917 (meno scontato), I miserabili (non dovrebbe essere scontato, ma tanti lo stanno lasciando indietro)…
Se non l’hai ancora fatto, dai anche uno sguardo a “Roubaix, una luce”, che tra l’altro per Cineforum è risultato il miglior film dell’anno, anche se si parla sempre di quest’anno. Desplechin è un grande regista sottovalutato, perché non-incasellabile, fin dai tempi de “La vie des morts”, che risale ormai a trent’anni fa ma che ricordo come un momento folgorante per sensibilità e misura dei toni. E si trattava di un mediometraggio.
Mi permetto di segnalare il tuo neonato blog: https://hovistocose267898156.wordpress.com/,
facendoti tanti auguri per questo nuovo inizio. ;-))
sì Roubaix l’ho visto e penso sia un gran film (anche se ammetto che è il primo Desplechin con cui mi confronto)…
alla fine comunque di carne al fuoco anche quest’anno ce n’è stata, tutto sommato… anche perché a rinviare le uscite sono stati soprattutto i film che volevano fare i “big-money” al botteghino… gli altri, bene o male, sono comunque arrivati, quasi tutti, soprattutto grazie allo streaming (che mai come quest’anno è quindi giusto considerare)…
grazie Giampiero!
p.s.: non c’è Tenet (e c’era da aspettarselo)… ma non ci sarebbe stato neanche allargando a 20?
Nei primi 20 di un anno credo non si possa mai lasciare fuori nessun film di Nolan, perché perlomeno dal Cavaliere oscuro in avanti ogni suo film si dà sempre nella dimensione dell’evento, più che del film in sé. Ma proprio perché si tratta di Nolan meglio tenerlo fuori dalle classifiche che umiliarlo trovandogli una posizione consolatoria. Poi nelle classifiche, che sono sempre un gioco in cui entra molta soggettività discutibile (è ovvio che Tenet sia un film migliore di alcuni che ho inserito), si valuta anche l’aspirazione di un lavoro, l’impatto subito da quello stesso film, la sorpresa, la voglia di inserire un titolo dalle pretese minori ma dal risultato comunque eccezionale. E forse Tenet, che è rimasto fuori da quasi tutte le classifiche che ho visto, anche le più deliranti, paga questo, il fatto di essersi proposto come l’ancora di salvataggio di un cinema che stava affondando ma di non essere riuscito veramente a superare il solito schema proposto dalle storie cerebrali di Nolan, geniali ma che corrono spesso tutte il rischio, se non rappresentano un’assoluta novità, come fu per Inception, di avvitarsi su se stesse. E questa è una considerazione banale che vale anche per i prossimi lavori che proporrà.
D’accordo con te sulla funzione dello streaming, quest’anno. Modalità su cui si possono fare mille dibattiti e riflessioni ma che come ipotesi complementare non mi dispiace per niente.