Altrove mi hanno chiesto, come di consueto di questi tempi, la classifica dei dieci film più belli dell’anno. Lo fanno tutti, in tutti gli ambiti, dai gol ai libri alla musica, ognuno propone la sua (a proposito, per quanto conti, i dischi dell’anno sono, in ambito rock, Western Stars del Boss; in quello jazz sono indeciso tra Rymden, Reflection and Odysseys, Joshua Redman & Brooklyn Rider, Sun on Sand e Muriel Grossmann, Reverence: scegliete voi).
Eccola, cruda e quasi nuda.
- C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino. Come il cinema, ancora una volta in Tarantino, spanda morte fittizia a piene mani per sconfiggere quella effettiva, realmente avvenuta. Una magra consolazione, probabilmente anche una manipolazione, ma quanto ci piace farci manipolare da un primo piano fanciullesco di Margot Robbie mentre guarda il suo film in sala e dal cinismo di una battuta come «Don’t cry in front of the Mexicans», detta da Brad Pitt a un DiCaprio disperato per la sua carriera in declino? Sublime.
- The Irishman di Martin Scorsese. Un film di gangster che nelle mani di Scorsese diventa una riflessione sul tempo, sul senso della colpa e sul rimpianto delle cose perdute. Sa di nostalgia ma è l’opera riassuntiva di un’intera vita artistica, con in più i sussulti erotici ad ogni movimento di macchina che solo Lui sa dare. Riconoscimento anche alla seconda battuta dell’anno, dopo quella di Brad Pitt: due agenti FBI informano un De Niro ormai anziano che il suo avvocato è morto. Voi con fedina penale immacolata chiedereste «Com’è successo?», De Niro domanda «Chi è stato?» e fornisce il metro con cui si misurano le vite (e il tempo) nell’universo della criminalità e nella concezione di Scorsese. Monumentale.
- Storia di un matrimonio di Noah Baumbach. Baumbach cresce, invecchia e man mano dipinge la sua vita universalizzandola all’interno del suo cinema. Lo fa da sempre e in quanto percorso di continua formazione impara anche dai suoi errori, che però sullo schermo diventano irrimediabilmente umani, pietosi e commossamente intimi. Senza nessun timore reverenziale: valido quanto Bergman e con un registro più articolato di Kramer contro Kramer. Dopo il tempo manipolato e quello rimpianto delle due precedenti posizioni, il tempo che erode le esistenze e le consuma. Il miglior film di Baumbach, tenero e sconvolgente, checché ne dicano alcune riviste fighette.
- La favorita di Yorgos Lanthimos. Una visione deformata del passato come se fosse visto attraverso il buco di una serratura. È, in pratica, l’Eva contro Eva del XVIII secolo con un cast memorabile (e infatti Olivia Colman ha vinto l’Oscar nei panni dell’instabile regina Anna) e un gusto raro nella cura dell’immagine, paragonabile a quella di Céline Sciamma per Ritratto della giovane in fiamme, uscito pochi giorni fa (stesso secolo, pulsioni simili, motivazioni diverse, cura altrettanto pittorica dell’inquadratura). Regale.
- Il corriere – The Mule di Clint Eastwood. Passano gli anni ma ci sono pochi registi che riescano a ritrarre l’America con la stessa lucidità con cui lo fa Clint, pur fingendo di parlare d’altro. Basterebbe osservare come allarga progressivamente il campo delle inquadrature sul paesaggio con l’avanzare della carriera criminale del protagonista. Imperituro.
- American Animals di Bart Layton. Uscito in Italia con grande ritardo, riflette filosoficamente sul farsi della narrazione e sul concetto di verità vista attraverso percezione, volontà e prospettiva. Sottilissimo.
- Vice – L’uomo nell’ombra di Adam McKay. McKay, zitto zitto, è abilissimo a penetrare nelle maglie più strette della società americana, rendendo didascalico, nell’accezione positiva del termine e senza che nessuno se ne accorga, qualunque ostico argomento. Così fu per La grande scommessa, così è per la biografia non autorizzata di Dick Cheney, realizzata con tanta ironia e uno sguardo metanarrativo sempre beffardo. Con un enorme (in tutti i sensi) Christian Bale. Brillante come un ordigno.
- L’uomo dal cuore di ferro di Cédric Jimenez. Tratto da quel bellissimo saggio romanzato? metaromanzo? ricostruzione storica personalizzata? che è HHhH di Laurent Binet, è un meccanismo precisissimo e soffocante di tensione sull’uccisione del Boia di Praga, Reinhard Heydrich, che non ha niente da invidiare al più grande film sull’argomento, Anche i boia muoiono di Fritz Lang. Esagerato (io).
- Midsommar – Il villaggio dei dannati di Ari Aster. Seconda prova per Aster, un horror a tratti delirante realizzato in controtendenza: laddove il primo, Hereditary, era notturno e oscuro, questo è sovraesposto, luminoso, estivo. La paura nasce dalla dilatazione elastica delle situazioni, fino alla tendenza a scivolare nel parossismo. Aster e Jordan Peele, che quest’anno ha proposto Us, sono le speranze che il futuro dell’horror moderno non sia sempre e soltanto mostri e Jump Scare. Virgulto.
- Avengers: Endgame di Anthony e Joe Russo. Una macchina per far soldi, organizzata capitalisticamente intorno a questo capitolo finale che avrebbe potuto semplicemente essere come tutti gli altri: battaglie, organizzazione, momenti di crisi, riscossa. E invece anche la consueta struttura fa uno sforzo per apparire differente, prolungando innaturalmente i momenti riflessivi prima della (inevitabile) offensiva finale, attesa da almeno un anno e procrastinata con abilità mercantilistica. All’interno, probabilmente, la scena più divertente dell’anno: Rocket, il procione dei Guardiani della Galassia, che tira uno schiaffone a quel bellimbusto di Thor, imbolsito e depresso. Da morire.
E già che ci siamo, due o tre segnalazioni. Due serie televisive da urlo: le seconde stagioni di Mindhunter, che è come avere un tascabile dell’opera omnia di David Fincher sul comodino per i momenti di sconforto, e di Yellowstone, prodotta dalla Paramount Network, annunciata in Italia da Sky Atlantic ma di cui non si scorgono ancora neanche i segnali di fumo. Perché? Perché un western è sempre pericoloso per il gradimento del pubblico. Soprattutto questo, prodotto da Kevin Costner e scritto da Taylor Sheridan, già regista di quel piccolo gioiello che è I segreti di Wind River e sceneggiatore di Sicario, Soldado e Hell or High Water, che ha capito una cosa fondamentale per tentare di rinverdire il genere: ibridarlo con la contemporaneità, camuffandolo da saga familiare, melodramma individuale e thriller mafioso, con una spruzzata di sapiente political correctenss sulla minoranza sempre vessata dei nativi, non più uccisa tipo l’orso del luna park come nell’epopea classica ma trattata come se fossero gli alieni rispetto a una maggioranza sovranista. Si parteggia per la famiglia di Costner per una questione di carisma patriarcale e frequentazione abituale, non per meriti morali, come aveva abituato il genere: il (raro) western del nuovo millennio è un universo marcescente in cui il possesso è sopravvivenza, non più ricchezza e nel quale ci sono solo gradi crescenti di perversione, mai virtù.
Infine un inedito in Italia: Dragged Across Concrete di S. Craig Zahler, poliziesco pronto a erompere improvvisamente in una violenza belluina (come nei due lavori precedenti del regista, Bone Tomahawk, horror-western del 2015, e Cell Block 99: Nessuno può fermarmi del 2017) dopo lunghe parentesi incuranti di qualunque criterio di sintesi narrativa (Mel Gibson e Vince Vaughn, detective in appostamento, mangiano tutto, ma proprio tutto il loro pasto mentre sono in attesa). Dolente e sufficientemente anarchico da infischiarsene delle regole drammatiche.
In generale mi sembra che sia stato un anno eccellente, speriamo che il 2020 sia almeno pari a questo.
A me è piaciuto moltissimo anche il film di Polanski
sì, sono d’accordo, è stato un anno positivo. per il 2020 ci sono già alcuni film che attendo con curiosità e anche una certa speranza, già dall’inizio dell’anno con Richard Jewell di Eastwood e Piccole donne di Greta Gerwig. poi The Lighthouse di Robert Eggers, nonostante ancora non si sappia quando uscirà. anche se spesso le sorprese più piacevoli arrivano quando meno te le aspetti…
ciao Vincenzo!
PS: J’accuse l’ho trovato corretto nella forma e nella sostanza, non vi ho visto dei guizzi à la Polanski, per questo non l’ho inserito nei 10. ma, come si sa, tutto è opinabile.