[Come avrete capito, è la mia classifica dei migliori film dell’anno. Siccome ho scritto tanto ed è possibile che andiate così di fretta da non voler leggere il resto, questa è la sola classifica:
1. Madre di Rodrigo Sorogoyen
2. The French Dispatch di Wes Anderson
3. The Father di Florian Zeller
4. Fino all’ultimo indizio di John Lee Hancock
5. Madres paralelas di Pedro Almodovar
6. Il collezionista di carte di Paul Schrader
7. Riders of Justice di Anders Thomas Jensen
8. Drive My Car di Ryûsuke Hamaguchi
9. The Green Knight di David Lowery
10. Shiva Baby di Emma Seligman
Se invece proprio non ve ne frega niente neanche della classifica perché vi preoccupate solo della vostra, ecco qua uno spazio bianco, così non siete obbligati a leggere nient’altro:
Se invece siete curiosi, andate pure avanti.]
Poche cose sono sicure al mondo quanto le classifiche di fine anno su qualunque cosa vi venga in mente, o meglio, vi sia venuta in mente nel corso dell’anno appena trascorso. Fare le classifiche è rapido (oddìo…) e divertente e non risparmia niente: i dieci video più divertenti dell’anno, le canzoni che hai ascoltato di più su Spotify, la top ten delle migliori partite della Juve, se solo ne avesse fatte dieci e non un paio come invece ricordo io. In particolare, la presente è la terza classifica che questo blog presenta e, pensandoci, solo la prima, quella del 2019, è stata una classifica normale, visto che le altre, questa compresa, sono state stravolte da distribuzioni condizionate da ritardi, cancellazioni, sale vuote, poi piene a metà, poi piene ma comunque sempre mezze vuote perché la gente un po’ ha paura, un po’ ha giocoforza mutato alcune delle sua modalità di fruizione, senza contare le riconversioni in streaming, le bestemmie e le speranze per un futuro che s’intravede ma solo come inguaribile promessa di ottimismo. Quest’anno, perlomeno dal 26 aprile, una parvenza di normalità è tornata (dapprima) sotto forma di capienza al 50%, anche se alcuni dei film potenzialmente da votare arrivano da un passato lungo anche un paio danni, quando si immobilizzarono aspettando tempi (distributivi) migliori. Prima di iniziare con una classifica scontata perché, perlomeno per la prima posizione, era stata in qualche modo preannunciata già dal 17 settembre, mi permetto di citare il libro più interessante dell’anno (è Due vite di Emanuele Trevi. Ha vinto lo Strega, quindi, bella forza, non è che ve lo debba dire io, tuttavia spesso lo Strega riflette interessi editoriali di cui a me fotte davvero niente, anzi, come ormai saprete se fate parte della cinquantina di affezionati – sì, siete aumentati, nel frattempo, grazie! – dalle case editrici talvolta me la sono presa in saccoccia, per cui, ribadisco: Due vite è il miglior libro perché l’ho letto ben due volte in pochi mesi, ed è l’omaggio postumo di Trevi agli amici scrittori Rocco Carbone e Pia Pera, di cui non avevo mai sentito parlare – d’altronde neanche Trevi ha mai conosciuto Riccardo, Totonno e Michele – ma ai quali mi sono affezionato per le pennellate con cui se ne racconta la struggente parabola umana e l’accidentato percorso artistico. Breve e intensissimo). Il disco dell’anno, invece, è come il western per tutti voi che lo considerate un reperto archeologico tamarro, però a me quanto mi piace? (ed è il quadruplo live dei reduci degli Allman Brothers registrato al Madison Square Garden il 10 marzo 2020 per celebrare i 50 anni della band, che in questo disco si firma solo Brothers, visto che, morto anche Gregg e sopravvissuto il solo Jaimoe della formazione originale, gli Allman – ahimé – non ci sono più).
Ma partiamo.
1. Madre di Rodrigo Sorogoyen
Alla fine ha vinto. Mai avuto un solo dubbio. È quel lampo che scatta impressionisticamente quando vedi una cosa e non hai bisogno di vederla una seconda, anche se poi lo fai e ti rendi conto che resiste anche a una seconda visione, anzi, si arricchisce di elementi che la prima volta non si potevano scorgere perché si era intenti a osservare il flusso narrativo ed emotivo sprigionato. Durante i primi tremendi 17 minuti (che presi da soli, quando erano ancora un cortometraggio, furono candidati all’Oscar), in cui l’orrore si materializza progressivamente pur restando rigorosamente fuoricampo, aggrappato alla voce di un cellulare, ma erodendo per reazione lo spazio architettonico della scena, i movimenti nervosi dei personaggi e la loro azione impotente per poi deflagrare nella sua inaudita potenzialità a lungo implosa, come quando nelle slapstick bloccano la pompa aumentando la pressione che poi esplode in faccia tutta insieme, durante quei cazzo di 17 maledetti minuti iniziali, volevo abbandonare il film. Come spettatore. Come padre, malgrado di solito tenda a non introdurmi nel film dalla porta personale. E dall’ultimo post sapete che non abbandono mai perché vado fino in fondo. Ma volevo. Però sono rimasto. Fortunatamente. Sono rimasto per apprezzarne il sottile gioco di ambiguità messo in scena da una regia che rende soffocante le illusioni, le false speranze e anche i rapporti interpersonali. Sfiancante e sublime. [E a proposito di Sorogoyen: non uscirà, ma se dovesse in qualche modo uscire in Italia, date uno sguardo anche alla serie che ha creato insieme a Isabel Peña, Antidisturbios, ossia, come essere spagnoli e insieme capaci di fare grandissimo cinema con implicazioni sociali e politiche, senza essere per forza dei chiassosi scorreggioni come nella Casa di carta].
2. The French Dispatch di Wes Anderson
È il solito Anderson, ma per noi il solito Anderson è più che sufficiente a rientrare tra i primi dieci film dell’anno. Di ogni anno. A chi lo accusa di manierismo rispondiamo con una pernacchietta appena accennata perché non abbiamo tempo da perdere e nessuna voglia di spiegare che se sei un autore che ha inventato un autentico universo espressivo di riferimento e in quello stesso mondo ci vivifichi, sarai per sempre manierista per chi quel mondo non lo apprezza. È inevitabile. Ma ci pieghiamo a dire agli incauti che NON è il solito film, perché per capirlo basterebbe solo contare quel paio di secondi in più su ogni piano medio o quei lenti movimenti della macchina da presa in grado di trasformare i suoi personaggi da cartoni animati a esseri umani. Sempre perpendicolari all’asse di ripresa, certo. Come ho scritto altrove, Anderson è un maestro nel creare una nostalgia per un tempo che non è mai esistito. E questo succede solo a chi vive, come Lubitsch ad esempio, in un mondo che esiste di per sé, indipendentemente dalla realtà effettiva. Commovente, anche solo per la perfezione della forma.
3. The Father di Florian Zeller
Che bello che qualcuno metta lo spettatore ancora così in difficoltà da obbligarlo a ricostruire la vicenda a posteriori oppure, peggio, a dover rivedere il film per verificare i propri parametri. Zeller prende una sua pièce sull’Alzheimer e la porta al cinema dopo che lo fece in modo piuttosto innocuo Philippe Le Guay con Florida sei anni fa. E il film è una sfida. Allo spettatore e ai criteri di struttura, perché il risultato è un nastro di Möbius che si rigira su se stesso, con un enorme Anthony Hopkins che non per niente ha fatto incetta di premi, tra cui l’Oscar, premio che tra l’altro è andato anche alla sceneggiatura non originale di Zeller, che però, traendola da un suo dramma, è come se avesse vinto due volte. A suo modo, è un Mind Game movie, complesso, dolente, obbliga lo spettatore a cercare appigli per non perdersi e poi, una volta che si è immancabilmente perso, perché è inevitabile, non tanto perché lo spettatore sia un coglione abituato solo alla linearità elementare della narrazione, ma proprio perché DEVE perdersi, in quanto il gioco al massacro orchestrato dal film è penetrare nella soggettività malata e priva di agganci del paziente, una volta perso, dicevamo, lo spettatore non può far altro che riconoscere arrendendosi che l’Alzheimer è una bestia brutta che ti apparecchia la realtà davanti agli occhi per sottrartela da sotto il culo come quando alle medie facevamo quegli scherzi di merda in cui la vittima rischiava di battere il cervelletto e morire. Ingannevole e manipolatorio.
4. Fino all’ultimo indizio di John Lee Hancock
Il neonoir ha sempre qualcosa di malato. E quella malattia affonda sempre la sua origine, come da tradizione, in un passato non elaborato, pronto a ripresentarsi nel presente. Altrimenti non è noir. Qua c’è tutto l’armamentario del genere: un detective dal grande passato caduto seriamente in disgrazia, un giovane virgulto della polizia che può risolvere quello in cui il vecchio detective ha fallito e un serial killer che potrebbe essere lo stesso che ha mandato in crisi il detective dal grande passato tornato per prendersi ciò che si merita o forse no. Ed è sul forse no che si genera quel margine che può fare altre vittime, sia tra le donne seviziate e uccise, sia tra coloro che seguono il caso. Sembra Se7en per la caratterizzazione del presunto colpevole e True Detective per l’osmosi di piani cronologici differenti, ma non è né l’uno né l’altro e neanche vi si ispira, visto che la sceneggiatura risale al 1993, quando Brad Pitt faceva ancora il coinquilino sballone di Christian Slater in quel capolavoro totale che è Una vita al massimo («Negro, negro, negro» vi dice qualcosa? Puzza di Tarantino. E ci credo: l’ha scritto lui) e Nic Pizzolatto era appena diventato maggiorenne. Su tutto aleggia il Dürrenmatt de La promessa, probabilmente il giallo più intelligente e beffardo mai scritto, forse la parola definitiva sul genere e su qualunque altro giallo venuto dopo, con buona pace di svedesi, siciliani e napoletani. Questo film, ve l’assicuro, non lo vedrete in nessun’altra classifica, ma per atmosfera, costruzione insatura della tensione e finale falsamente consolatorio è un lavoro di proporzioni immani. Sottovalutato in modo totalmente ingiusto.
5. Madres paralelas di Pedro Almodovar
Il classico almodrama, come non si vedeva almeno dai tempi di Volver (ma volendo essere spietati, addirittura dai tempi di Parla con lei, che resta anche a distanza di anni un film gigantesco). Bene!, Pedro è vivo e soffre e ride insieme a noi. E soffre grazie a un’interpretazione maiuscola di Penelope Cruz, capace di esondare dallo schermo (ma non v’illudete, zozzoni) per incarnare i meccanismi un po’ folli del suo regista, l’unico in grado di far piangere e ridere nella stessa inquadratura. Madri parallele è un gioco del destino che intreccia le fasi della vita con il periodo oscuro della dittatura franchista e mette in scena le solite lancinanti relazioni fra personaggi, che sovrappongono le loro esistenze alla ricerca di un’identità sempre complessa da raggiungere. Qua si parla di rinascita individuale (anche delle madri attraverso i proprio figli) andando in parallelo con il dramma storico spagnolo, in un percorso che lega insieme le scelte morali individuali e la persistenza di una memoria che il potere intendeva cancellare. Commovente con brio.
6. Il collezionista di carte di Paul Schrader
Vabbe’, io stimo Schrader (adoro mi pare un po’ troppo entusiasta, come termine) anche solo per il fatto di aver scritto Taxi Driver e quel fantastico saggio che è Il trascendente nel cinema e apprezzo anche gran parte dei film che ha realizzato da regista, preso com’è da questioni morali che non si risolvono praticamente mai e ossessionato a più riprese dal cinema che ama (Bresson, Ozu, Dreyer, Bergman, il noir ecc.). In questo caso, per di più, il suo film ha come protagonista un gambler, uno in grado di contare le carte, capacità per la quale, pur essendo pratica vietata nei casinò, ho una reverenza quasi cristologica perché: 1. In quanto merce rarissima, ho un profondo rispetto per l’intelligenza; 2. È quello che sapeva fare mio zio Mimì, che infatti, sotto la copertura di un lavoro rispettabile che svolgeva a tempo perso, nella sua vita faceva questo ed era un personaggio da film, molto di più dell’Oscar Isaac protagonista del film di Schrader. Ma se mio zio (lui sì, lo adoravo) era un’intera antologia di episodi a metà tra la commedia all’italiana e i film di Bruno Corbucci se fossero stati ambientati a Milano, il film di Schrader, con la sua tensione tutta interna al gioco mostrato (già tesa di per sé), è una metafora dell’America, della quale parla con accenti impietosi ogni qualvolta una carta viene mostrata sul tavolo verde. Cupo e rivelatore.
7. Riders of Justice di Anders Thomas Jensen
Per il famoso principio per cui una farfalla, sbattendo le alette in Cina, provoca un uragano a New York, ecco il ritorno di Anders Thomas Jensen. E chi cazz’è, qualcuno potrebbe obiettare. Ve lo dico. È danese, è lo sceneggiatore di fiducia di Susanne Bier che se vince un Oscar per il miglior film straniero con In un mondo migliore il merito è anche suo perché le ha scritto la sceneggiatura, ed è l’autore di un gioiello di oltre quindici anni fa, Le mele di Adamo, che pochissimi conoscono ma che meriterebbe di essere riscoperto perché «unisce Tarantino a Dreyer», come mi disse con felice intuizione il mio spacciatore di dvd dell’epoca, Antonio Vurchio (per capirci: pensate se Vincent e Jules, dopo aver spiaccicato il cervello del loro passeggero sul lunotto posteriore, si mettessero a riflettere su quanto sia lunga e piena di ostacoli la strada per raggiungere la grazia di Dio). Non sempre fa le cose per bene, Jensen, soprattutto da regista, ma quando le fa, le fa bene bene bene. E qua le fa. Le alette della farfalla di prima ci stanno perché con questo film, apparentemente un action movie scandinavo, che ancora fortunatamente non esiste codificato come genere, Jensen si interroga sulle conseguenze del caso e ne fa una parabola di sofferenza e progressiva consapevolezza sull’azione e sui suoi nefasti effetti, sul pregiudizio e sulla visione oggettiva della realtà. Senza prendersi mortalmente sul serio, ma con un occhio sempre pronto a stemperare gli eccessi per mezzo di una (sempre) possibile risata. Grandissimo Mads Mikkelsen, lucido quanto lo fu in Un ultimo giro, anche più massiccio e suscettibile, ma gran parte della parabola illustrata ruota intorno alla sua interpretazione. Violento e tenero al contempo.
8. Drive My Car di Ryûsuke Hamaguchi
È nelle prime posizioni di quasi tutte le classifiche delle grandi riviste, tipo quella di «Film Comment» dove è secondo, o in quella di «Sight & Sound», nella quale è terzo o ancora in quella dei «Cahiers du cinéma», in cui è quarto (e per «Cineforum» ha persino vinto). Tratto da un racconto di Murakami, è un film all’orientale, ti si sedimenta dentro lentamente, mentre la Saab turbo rossa a cui si riferisce il titolo diventa l’ambiente privilegiato di riflessione e introspezione di un regista-attore teatrale di mezza età reduce da traumi che abbatterebbero un bue, mentre invece lui si accende una sigaretta con sguardo fisso davanti a sé (che differenza con le sceneggiate napoletane!), impegnato in un laboratorio per mettere in scena una versione di Zio Vanja recitata contemporaneamente in più lingue. Combinazioni, intrecci, ricorsi e vuoti esistenziali che si colmano per una vicenda raccontata con tempi ampi (tre ore la durata), in cui arte e vita s’intrecciano benché non sia certo una novità. Qua però l’interesse è destato dalle relazioni particolari tra i personaggi e tra ambiti che niente dovrebbero avere in comune, come la recitazione, l’intimità e l’automobile, legati insieme filmicamente da un match cut fluido e totalmente rivelatore del senso complessivo (ruote dell’auto che si fondono con le rondelle di una musicassetta) – [il match cut è quel montaggio che mette in relazione due piani diversi tra loro sulla base di una corrispondenza estetica, volumetrica, dinamica, il cui scopo è un’attribuzione ben definita di senso. Per capirci: l’osso ruotante di 2001: Odissea nello spazio che nell’inquadratura successiva diventa un astronave che danza sulle note del Bel Danubio Blu, fottendosi con un semplice taglio di montaggio 5 milioni di anni di evoluzione]. È un film sulla comprensione verso l’altro-da-sé raccontato come se fosse una conquista artistica ancora prima che umana, come se una dovesse passare necessariamente attraverso l’altra. Rigoroso e stratificato.
9. The Green Knight di David Lowery
Altrove, questa posizione è stata di First Cow di Kelly Reichardt, ma siccome lo avevo già votato lo scorso anno, in questa sede ho preferito non ripetermi, lasciandolo per le classifiche in cui il discrimine era la data di uscita ufficiale in streaming o in sala. Per cui, The Green Knight di David Lowery, al quale sono sempre grato di aver realizzato quel capolavoro di stilizzazione che fu A Ghost Story. Lowery ha una regia geometrica, scolpita sulla condensazione del tempo e sulla perpendicolarità degli assi. Tendenza evidente in questo film, tratto più o meno arbitrariamente dal ciclo bretone, e tradotto con colori vividi inseriti in un’atmosfera cupa e soffocante che più che di fantasy sa di incubo. Perché a Lowery non interessa narrare l’avventura del prode Galvano (il Gawain del titolo italiano, Sir Gawain e il Cavaliere Verde, interpretato da Dev Patel), quanto la sua pochezza morale, che lo porta a compiere un classico percorso di formazione in cui la formazione non c’è, al massimo c’è la sua (de)formazione di eroe inetto, capitato per puro a caso a giocarsi un’impresa troppo più grande di lui. Con tanti saluti all’eroismo delle storie di Re Artù e della Tavola rotonda e alla virtù di Galvano per come ci è stata tramandata. Geometricamente eccentrico.
10. Shiva Baby di Emma Seligman
Esordio col botto per una distribuzione rispettabile (su Mubi) ma che forse avrebbe meritato una diffusione maggiore di quella di nicchia. Vive sulla base dei topoi della cultura ebraica, la comicità è irresistibile e nasce dall’assurdità di scelte individuali e situazioni collettive, una protagonista, Rachel Sennott, con la faccia giusta, a metà tra l’immaturità e lo zoccolismo, che può fare la felicità di perversi e maniaci sessuali, una sceneggiatura di altissima qualità, pronta al frizzo e al lazzo amaro con una cadenza da fuoco d’artificio di festa patronale (e non quei cazzo di droni usati dalla giunta Appendino qui a Torino per evitare di spaventare i cani! Ma li morte’. Non perché i fuochi siano edificanti, eh, non li vedo dall’91, solo perché il drone è ectoplasmatico e sembra una recita di mimi in uno spettacolo dedicato al nulla). Tornando a noi, Shiva Baby è un film senza struttura, perché è un lungo fiume di eventi che si susseguono inseguiti dalla macchina da presa all’interno di un solo luogo e in vista di un unico grande tema riassuntivo finale: la solitudine è brutta e le persone, anche quelle che prendono strade discutibili e imbarazzanti, alla fine non cercano altro che un contatto affettivo. Strepitante e vorticoso.
Per concludere, non si tratta di un intero film ma voglio citarlo lo stesso perché giunto al termine dell’anno può assumere una valenza antologica, ed è la fantastica lezione di cinema esistenziale impartita al giovane Fabietto Schisa dal rissoso e sguaiato regista Antonio Capuano nel finale di È stata la mano di Dio, in cui spiega urlando che la creatività è sopravvalutata e che bisogna avere qualcosa da dire, altrimenti si è uno stronzo come tutti gli altri (grande verità che vale non solo per il cinema, per tutto, a partire da questo blog, per esempio, fino alle cose ben più serie). Quindi auguri di un sereno anno prossimo, malgrado la terza, quarta o qualunque altra dose dovremo fare e chissà se basteranno, perché tanto ‘sto cazzo di virus è peggio di chi occupa le case abusivamente: non se ne andrà. Per cui, tanto per restare in tema, «non vi disunite!», neanche quando fra circa un mesetto sarà eletto Presidente della Repubblica Silvio Berlusconi e a quel punto anche Omicron ci sembrerà una gioviale barzelletta sulla figa.
Oltre alla sacrosanta e tradizionale top ten… si può avere anche una “short list” dei titoli imperdibili del 2021 distinti per genere cinematografico?
Magari con un’appendice profana anche sulle serie tv, visto che non è facile frequentare i cinema, di questi tempi…
Attendiamo fiduciosi…
Non posso che ringraziarti della domanda.
Cercherò di essere molto breve. Dunque, sulla short list dei titoli imperdibili distinti per genere, il discorso si amplia non poco. Prima di tutto perché il cinema attuale è oltre il concetto dei generi, spesso ibridato, altre volte volutamente oltrepassato per porsi al di sopra. Per fare un facile esempio, dei film qui citati, quanti hanno una dichiarata affiliazione a un genere? Su 10, forse 4: un noir (Fino all’ultimo indizio), un melodramma con caratteristiche proprie (Madres paralelas), un fantasy-cavalleresco (già ibridato di per sé, The Green Knight) e una commedia (Shiva Baby). E gli altri sei? Film d’autore dichiaratamente tali, un cosiddetto portmanteau (film a episodi), un Mind Game Movie (film rompicapo), un fake-action con risvolti morali e kieslowskiani…Ha senso farne una classifica? Non tanto, a meno che non si voglia poi avere una lista con tutti primi classificati, uno per genere. Di generi, tra l’altro, non codificati, non classici, che quindi non aiutano a una classificazione se non chi questi temini se li inventa.
Sulle serie tv: senza fare una classifica e andando a memoria, quelle che più mi hanno colpito quest’anno sono state sicuramente due docudrama (per rimanere in tema di generi) come SanPa (Netflix, uscita il 30 dicembre 2020 ma vabbe’, spalmata nei giorni successivi) e Veleno (Amazon Prime), entrambe devastanti e narrate in modo magistrale, poi sicuramente Strappare lungo i bordi (Netflix), di cui abbiamo parlato qualche post fa. Squid Game notevole se si fosse fermata al settimo episodio, come ci eravamo detti tempo addietro. E poi due che però non sono ancora uscite in Italia, l’Antidisturbios di Sorogoyen citato sopra e Small Axe di Steve McQueen, entrambe uscite negli ultimi mesi del 2020 ma che sono riuscito a vedere solo durante quest’anno, peraltro in modo avventuroso.
Grazie per la risposta, una micro-lezione di cinema ai tempi della “modernità liquida” (o liquefatta)… Però ci sono forse dei generi che rappresentano ancora delle certezze, come horror e fantascienza…
Insomma, i film da vedere assolutamente se si hanno passioni (o perversioni) più di nicchia…
oddìo, l’horror contemporaneo ha scelto la strada dell’effetto e non della costruzione delle atmosfere, per cui statisticamente trovare quelli davvero validi è pratica complicatissima. Quindi, al di là dei nomi che ormai tutti conoscono ma che è qualche anno che non fanno il benedetto terzo film (Jordan Peele e Ari Aster: per entrambi dovrebbe uscire verso l’estate o poco dopo; oppure Robert Eggers, il cui terzo film, The Northman, in uscita ad aprile, non sarà un horror), quest’anno si sono salvati, in ordine sparso: A quiet place 2 (anche se molto inferiore al primo), il trittico di Fear Street, poi Malignant e The Night House – questo sì che ha una buona costruzione della tensione.
Se dovessero uscire nel corso del prossimo anno in Italia, bisogna tener d’occhio Lamb, che è surreale e inquietantissimo, in the Earth, che è già in distribuzione su Prime Video, e Coming Home in the Dark.
Sul versante fantascienza va un po’ meglio perché, sempre numericamente, ci sono prodotti mediamente più interessanti. Anche se io penso che Villeneuve abbia perso gran parte del suo talento narrativo da quando è passato alla fantascienza. Ma questa è ovviamente una notazione del tutto personale che molti, quelli che hanno trovato fantastico e visionario Dune, non condivideranno. (grande sospiro) Vabbe’, non importa.
Tra quelli con meno ambizioni, a me non è dispiaciuto Oxygen, anche se forse il migliore di tutti è Little Fish, per la sua intelligente tessitura allegorica.